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Un caso di plagio nella trappola di un poliziesco

Un caso di plagio nella trappola di un poliziesco

Narrativa argentina Cinque storie brevi su registri diversi formano un crescendo di trame e atmosfere, preparando l’ingresso nella straordinaria nouvelle che dà il titolo al libro: Falso nome, da Sur

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 18 luglio 2021

E’ trascorso quasi mezzo secolo da quando Siglo Veintiuno pubblicò il secondo libro di Ricardo Piglia, una raccolta di racconti intitolata Nombre falso, che oggi appare finalmente in italiano per le edizioni Sur, nel cui catalogo figurano alcune delle opere più significative di questo autore del quale si potrebbe dire, a quattro anni dalla sua scomparsa, che «ogni giorno scrive meglio». La scrittura di Piglia, infatti, non solo resiste al passare del tempo, ma sembra via via acquistare nuovi significati grazie a una inalterata capacità di collocarsi nel futuro, misurandosi con ciò che ancora non esiste: questa antologia giovanile, Falso nome (traduzione di Pino Cacucci, pp.193, e16,00) già proiettata verso le opere scritte in anni successivi, ce ne offre una ulteriore prova.
La raccolta si apre su cinque storie brevi dai registri diversi, disposte in modo da formare un crescendo di trame e atmosfere che parlano di fallimento, menzogna, eroismo insensato, crimini impuniti, ricatti silenziosi, come per preparare impercettibilmente il lettore all’ingresso nella straordinaria nouvelle che dà il titolo al libro e ne occupa una buona metà: «Falso nome», macchina narrativa complessa e perfetta in cui l’autore si stacca per la prima volta dalla forma chiusa del racconto classico per andare verso ampie aperture sperimentali.

Gli ambienti presi da Arlt
«Questo che sto scrivendo è un rapporto o meglio un sunto: è in gioco la proprietà intellettuale di un testo di Roberto Arlt; quindi cercherò di procedere con ordine e in modo obiettivo» ci comunica nelle prime righe la voce del critico letterario Ricardo Piglia («doppio» conclamato dello scrittore) con una pretesa di oggettività presto smentita, man mano che l’eccezionale ritrovamento di«Luba», inedito arltiano accluso in appendice, si trasforma in un mistero da decifrare.
In possesso del poeta Saul Kostia, vecchio amico dell’autore dei Sette pazzi e di Aguafuertes porteñas, il manoscritto narra il tormentato incontro fra un anarchico in fuga e una cinica prostituta che, contagiata dalla purezza del rivoluzionario, decide di abbandonare il bordello e si spoglia dell’esotico nome falso dietro il quale si è nascosta. Gli ambienti, i personaggi, il linguaggio sono quelli caratteristici di Arlt, ma le contraddizioni e i tenui indizi seminati dal narratore suggeriscono la verità: «Luba» è la versione ambientata a Buenos Aires di «Le tenebre», scritto nel 1907 dal romanziere e commediografo russo Leonid Andreev (talmente popolare ai primi del secolo scorso che Gramsci ne recensì con ammirazione i drammi, augurandogli una folla di spettatori proletari, e pubblicò su «Ordine Nuovo» proprio il racconto in questione).

Troppo preso da una delle assurde invenzioni con cui sperava di arricchirsi, e incalzato dalla necessità di guadagnare, Roberto Arlt fu dunque spinto dalla mancanza di tempo a plagiare Andreev, dopo averlo letto nelle cattive traduzioni dell’epoca? Ma perché Kostia, subito dopo aver venduto al critico il presunto inedito, ha cercato invano di riaverlo e l’ha poi pubblicato con il proprio nome? E, se plagio c’è stato, come avere la certezza che il colpevole sia proprio Arlt? Fedele all’idea più volte ribadita nei suoi scritti che «la cosa più importante non si racconta mai», Piglia si guarda bene dal mostrarsi apertamente come l’autentico responsabile della falsificazione. Usa invece usa gli artifici del poliziesco – genere che predilige perché propone, pur senza risolverlo, «l’enigma della relazioni capitaliste» per spingere il lettore a entrare nel testo in qualità di detective, e al tempo stesso cerca di intrappolarlo grazie a un complicato gioco di specchi in cui dominano l’intertestualità, la mescolanza di generi e l’incrocio tra narrativa e critica, interamente dispiegato cinque anni dopo nel grandioso romanzo Respirazione Artificiale (Sur, 2012) e qui brillantemente anticipato.

È inevitabile notare, a questo punto, che la nouvelle contiene due omaggi differenti e inestricabilmente legati: il primo è quello esplicito a Roberto Arlt, cui Piglia ha dedicato nel tempo numerose e approfondite letture, facendo giustizia dei pregiudizi sulla sua «cattiva» scrittura (giudicata severamente perfino da chi lo apprezzava, come Cortázar e Onetti), e che per molti era solo un cronista, un semplice testimone del proprio tempo. Oltre a legittimarne lo stile crudo e spezzato, Piglia vede in lui un autore profetico, che ha colto il nucleo segreto della politica argentina, ovvero il rapporto perverso tra Stato e racconto falso della realtà, e ha saputo trasformare il complotto e la cospirazione in strategia narrativa.

«Falso nome» contribuisce a gettare le basi della rivalutazione di Arlt e annuncia l’importanza che assumerà la cosiddetta fiction paranoica nei romanzi di Piglia: La città assente (Sur 2014) o Solo per Ida Brown (Feltrinelli 2017), ma ci rimanda anche alle tesi formulate da George Steiner in Vere presenze(Garzanti 1992), là dove si assegna il primato della critica agli scrittori che riprendono, inglobano e trasformano le opere dei predecessori, poiché «l’arte è la migliore lettura dell’arte»,

Nascosto ma non troppo, il secondo omaggio affiora nell’epigrafe del volume, attribuita a Arlt e in realtà riferibile a un saggio e ad alcuni versi di Borges, maestro della citazione volutamente erronea e dell’apocrifo. La sua ombra di «falsario» sublime si allunga sul testo di Piglia, che elabora l’idea di autore come figura intercambiabile, ricorre alle note a piè di pagina e a titoli di opere inesistenti, fa della finzione un saggio e del saggio una finzione, proprio come nel celebre racconto di Borges dedicato al misterioso Pierre Menard, assorto nell’impresa di scrivere «non un altro Chisciotte – il che è facile – ma il Chisciotte».

I procedimenti di Borges
«Falso nome» mostra così un altro dei suoi tanti aspetti, quello di possibile risposta alla domanda che ha aleggiato fin troppo a lungo sul panorama letterario argentino: come scrivere dopo Borges? A differenza di Juan José Saer, che ha escluso materiali e meccanismi affini a quelli borgesiani per imboccare una strada affatto diversa, Piglia se ne appropria e decide di riformularli in modo drastico. Con singolare abilità mimetica riscrive alla maniera di Arlt il racconto di Andreev, ma per farlo si serve dei procedimenti di Borges e li contamina con la presenza, i temi e le ossessioni di un autore che ne era l’antitesi (in Respirazione artificiale Emilio Renzi, da sempre alter ego dello scrittore, sostiene che Arlt è l’unico autore argentino veramente moderno e Borges il migliore del diciannovesimo secolo).

Ed è collegando i due poli opposti della letteratura nazionale e «usandoli», che in «Falso nome» Piglia ha saputo misurarsi con la tradizione letteraria del suo paese fino a trasformarla in qualcosa di profondamente nuovo e personale.

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