Cultura

Un caotico groviglio di fili persiani

Un caotico groviglio di fili persianiShirin Aliabadi, «Miss Hybrid»

Intervista Lo scrittore iraniano Mehdi Rabbi sarà oggi al festival di Internazionale a Ferrara per presentare il suo libro «Quell’angolino tranquillo a sinistra», uscito per Ponte 33

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 3 ottobre 2015

Lo scrittore iraniano, Mehdi Rabbi, docente di Sceneggiatura all’Università di Tehran, autore del libro Quell’angolino tranquillo a sinistra (Ponte 33, 112 pp., 14 euro), è per la prima volta in Europa: presenterà in anteprima la versione italiana del suo libro al Festival di Internazionale di Ferrara. Con la pubblicazione della sua raccolta di racconti è stato tra i finalisti dei prestigiosi premi letterari iraniani Golshiri e Mahregan. «Per me è tutto ancora molto nuovo, è come avere gli occhiali appannati. Li sto pulendo per avere un’idea più chiara», ci spiega per descrivere la sua prima impressione all’arrivo in Italia.

Quale relazione emerge dai suoi racconti tra la campagna del Sud-ovest del paese da dove proviene e i centri urbani iraniani?
La tradizione letteraria del Sud-ovest dell’Iran è molto più forte che nel resto del paese. Sia nel cinema che nella letteratura, gli artisti del Sud sono tra i più interessanti tra le nuove generazioni. Con la guerra tra Iran e Iraq (1981-1989), gli intellettuali della mia regione hanno lasciato questa terra. E così per tanti anni il Sud dell’Iran non ha espresso voci intellettuali di rilievo. Ancora oggi molti si trasferiscono nel centro del paese (tra Tehran e Isfahan, ndr) per avere spazio. Ma io non l’ho fatto. Ho voluto raccontare il mio Sud. Ho cercato di non scrivere come hanno fatto i miei predecessori né come fanno i miei contemporanei che risiedono nelle regioni centrali del paese. Alla fine, il luogo geografico dove si svolge l’azione è il Sud certo, ma le relazioni tra le persone sono moderne perché rispecchiano il più possibile il mio punto di vista personale.

Il «suo» Khuzestan, al confine con l’Iraq, è popolata da una importante minoranza araba ed è molto problematica…
La mancanza d’acqua e l’inquinamento (il capoluogo, Ahvaz, è considerato tra le città più inquinate al mondo) sono tra le nostre preoccupazioni principali (ci spiega mostrando un video di un suo memorabile tuffo nelle acque del fiume Karoum, ndr). I miei racconti li ambiento in luoghi aperti in modo da coinvolgere il lettore. Sono un uomo di sinistra, ma i miei racconti non parlano direttamente di politica, eppure non per questo non sono politici.

Uno dei racconti più interessanti si svolge in una «Tomba di famiglia» che i protagonisti usano come una vera e propria casa per le vacanze: ci spiega da dove viene questa usanza?
Il nonno di uno dei miei amici, nonostante fosse ancora vivo, si era comprato già una tomba. Ed era un luogo particolarmente bello: il nostro posto preferito per fare gite fuori porta. Per noi iraniani la vita e la morte sono molto vicine: «La vita terrena è un campo dove coltivi la vita futura». E così, in senso metaforico, il cimitero sorge proprio a due passi da un campo di grano. Nuotavamo, bevevamo (alcolici, ndr), ci divertivamo e poi passavamo la notte al cimitero. Ognuno dei miei racconti include un pizzico di realtà. Anche un autore surrealista non può elidere i rapporti con la realtà che lo circonda.

In «Massih», il tessuto narrativo gioca sul rapporto a tre (tra due uomini e una donna), uno dei temi ormai classici del cinema e della letteratura europea. A cosa si è ispirato per la sua struttura?
La relazione tra tre persone evidenzia quanto i rapporti siano fragili. E così l’arrivo di un terzo individuo mette sì in esame la relazione tra i primi due, ma può evidenziare la forza di una coppia. Anche se la protagonista di questo racconto alla fine sceglie uno dei due uomini, i due ragazzi non sono mai rivali: l’amicizia prevale. Questo è qualcosa che ha radici nella poesia mistica persiana dove l’amato, la persona amata, non è di nessuno; e l’oggetto dell’amore è dio. Anche se la mia vicenda è più terrena, questo è il sostrato da cui proviene.

Da tutti i suoi racconti emerge un rapporto conflittuale tra modernità (narrato per esempio dalle ore passate a correre per le strade della città) e tradizione (evidente nella descrizione degli ambienti rurali). È così?
Il Sud per l’Iran è stato una finestra sulla modernità che, con gli introiti dalla vendita del petrolio, è arrivata di colpo in queste terre. E la tradizione non ha avuto il tempo di adattarsi. Il risultato è stato che situazioni tradizionali si sono ritrovate vicine alla modernità. Nella stessa città mentre una persona guarda su Google Map le strade di Parigi, in un altro quartiere il padre sta uccidendo la figlia. È importante far capire i vari livelli e come sono differenziati. Questo rende il racconto post-moderno. Situazioni paradossali convivono una accanto all’altra, generando conflittualità. In Iran modernità e tradizione non sono ancora pacificate.

Le sue sono soprattutto storie di gioventù e, a quanto pare, anche della sua infanzia…
Ho avuto un’infanzia movimentata. Sono stato lasciato a me stesso all’avventura. Ne ho fatte di tutti i colori. Potrei raccontarne per il resto della mia vita. In particolare, gli spazi aperti davano manforte alla mia creatività. Il mondo dei bambini non è diverso da quello degli adulti. Spesso per raccontare storie di adulti uso le parole dei bambini. È come se alcune cose appartenessero a un archetipo dell’uomo per cui essere piccolo o grande non fa differenza se si parla di amore, amicizia, tristezza e solitudine.

In «Chi sono gli occhi neri?» emerge soprattutto un bisogno di sfogo e di invettiva. A chi sono rivolti?
È un tentativo di tagliare con la vita familiare, intesa come istituzione soffocante, per trovare felicità nelle piccole cose. Il protagonista è passivo anche sul lavoro come se non avesse mai avuto il coraggio di prendere una vera decisione per sé stesso nella vita ma finalmente si decide a farlo. Questo è uno dei temi che ho poi sviluppato nella mia seconda raccolta di racconti, ancora non tradotta in italiano, il cui titolo suonerebbe Prendi e vai all’avventura. In questo caso, il protagonista prende in mano la sua vita, divorzia e si licenzia. Cerca qualcosa che non sa cosa sia. E dimostra grande coraggio in questo atto.

Perché dedica l’ultimo racconto ai «Ponti?»
Ahvaz (capoluogo del Khuzestan, ndr) è una città di ponti, un po’ come Firenze. I ponti sono come le persone: interagiscono con gli altri ma sono sole. Tutta la condizione dell’uomo contemporaneo può essere riassunta così.

È già in cantiere il suo primo romanzo?
Ci sto lavorando. L’argomento principale verterà su come mai l’amore non riesce a realizzarsi: è come se, nonostante tutto, l’uomo fosse sempre solo.

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