Un cane rabdomantico di altri tempi, una gatta per viaggi iniziatici e collezioni di misteriose parole
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Un cane rabdomantico di altri tempi, una gatta per viaggi iniziatici e collezioni di misteriose parole

Percorsi young Dizionari segreti dell'infanzia, cani, e una bambina in cerca della sua gatta...
Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 2 novembre 2024

Un piccolo cane è il titolo del capitolo, forse il più significativo, dell’ultimo romanzo di Beatrice Masini, Una casa fuori dal tempo (Mondadori, pp. 240, euro 16,50), perché immagine potente che richiama sia il celebre mosaico del cane nella casa del Poeta Tragico a Pompei, dove si svolge la storia, sia il calco in gesso del cane morto durante l’eruzione del Vesuvio, ritrovato nella casa di Orfeo e realizzato nella prima metà dell’800 proprio quando Vera, la protagonista del romanzo, arriva a Pompei insieme al fratello Caspian, archeologo e sognatore. A guidarla nella città dei morti è Ginestra, come lei ha soprannominato la ragazza senza ombra che appare e scompare leggera tra le rovine; è con lei che Vera vede per la prima volta il piccolo cane: Ginestra si è accovacciata per accarezzargli le orecchie e lo chiama teneramente per nome, Febus, «come se fosse normale salutare un cane di sassi». «Un piccolo cane con le orecchie a punta, disperato, contorto» è anche ciò che una colata di gesso riporta alla luce. Un po’ come Micol del Giardino dei Finzi Contini, Vera prova compassione per quel cane che non dorme, ma soffre per sempre. Ed è ancora il sentimento della compassione a rendere possibile l’incontro tra Vera e Ginestra che l’autrice definisce «sorelle vaganti nel tempo»: perché è in «una casa fuori dal tempo» – metafora della letteratura e non solo – che è possibile vedersi, immaginarsi, incontrarsi.

Assenza e presenza, pieni e vuoti si alternano in questo bellissimo romanzo in cui la dicitura young adult prende significato solo se leggiamo giovani e adulti come due mondi che entrano in comunicazione, in ascolto reciproco. Lo stesso può dirsi anche per l’ultimo romanzo di Lilith Moscon, Xenia contro il tempo (Emons edizioni, pp. 152, euro 13,50, illustrazioni di Francesco Chiacchio). Infatti, a chi si rivolge se non a tutti coloro che si lasciano guidare dal rabdomantico potere dell’infanzia, la storia di Xenia alla ricerca della sua (gatta) Alma sparita nella città di Firenze? È quel piccolo gatto – una piccola persona come direbbe Ortese – a condurla oltre la superficie delle cose perché «tutti dovremmo poter nascere sotto lo sguardo di una bestia. Sotto il suo odore selvatico e le sue orecchie allenate a sentire i pericoli». Dallo Spedale degli Innocenti allo Studiolo di Francesco I de’ Medici, dentro Palazzo Vecchio, fino al Cimitero degli Inglesi, Xenia compie un vero e proprio percorso iniziatico, un viaggio oltremondano.

Entrambi attenti ad ascoltare i luoghi e a cercare la lingua esatta per raccontarli, i libri di Masini e di Moscon si richiamano: bisogna «imparare a guardare», suggerisce a Xenia l’Eremita che parla come Ginestra per enigmi, bisogna «fermare gli occhi sulle cose. Toccarle. Annusarle».

Che anche le parole si possono guardare, toccare, annusare, e naturalmente ascoltare, è quello che ci mostra Arianna Giorgia Bonazzi nel suo libro originale quanto la collana che lo ospita («Topi immaginari»). Il suo Dizionario segreto d’infanzia (Topipittori pp. 120, euro 14) è uno scrigno di lemmi stravolti, accompagnati da aneddoti, il più delle volte divertentissimi, presi e trasfigurati dall’infanzia dell’autrice, e da acute riflessioni arricchite dai «dizionari segreti» di altri scrittori e scrittrici, da Dahl a Lindgren, da Almond a Clemens, da Woolf a Nabokov.

A guidare Bonazzi è un immaginario non solo visivo ma soprattutto sonoro, che rivela un rapporto tutto privato, a tratti viscerale, con le parole. Adulterio allora diventa «il peccato di essere adulti», peccato di aver perso contatto con le parole della nostra infanzia, e pure con l’infanzia delle nostre parole. C’è infatti una cecità infantile che consente di vedere magicamente dentro e oltre le parole: è così che la prima volta che l’io narrante sente il nome Valeria, questa si trasforma in una mantellina verde che sbatte al vento, mentre il torsolo della mela appare come un’entità bifronte, metà orso e metà toro; e altrettanto sorprendentemente, quando ascolta pronunciare dal bambino che le piace «Vado con il treno, a Cervinia!», ecco spuntare all’orizzonte «un treno lunghissimo, pieno di cervi che bramivano allungando le corna dorate fuori dai finestrini». Esiste, osserva Bonazzi, «una pareidolia della lingua» che ci consente addirittura di capire, sentire come familiari, parole straniere; è vero, nel libro di Moscon, per esempio, le parole in romanì disseminate nel testo, fanno questo effetto: basta un attimo per suggestionarsi e trasformare «Magca» (letteralmente «gatta») in magica. Del resto Alma, come tutti gli animali, è proprio magica.

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