In questa Biennale Musica di teatro ce ne tocca parecchio. Vediamo se Thinking things (2017) di Georges Aperghis – siamo tra i sommi della scenicità sonora multipla e tecnologica – indulge alla teatralità quasi da commedia di Machinations, lavoro ascoltato qui a Venezia nel 2015. No, non indulge. È quasi più cinema che teatro, nuovissimo, avveniristico. È un avvincente caleidoscopio di suoni e visioni. Di un’infinità di schermi che si accendono e si spengono dentro una grande costruzione che non assomiglia affatto a un muro ma a sua volta a uno schermo, da dove traspare il mondo dei pensieri degli affetti delle magie del divenire sperimentali. Quattro interpreti vocalisti-attori, tra cui spicca l’irresistibile amatissima Donatienne Michel-Dansac, una delle muse di Aperghis, appaiono e scompaiono dentro gli schermi. Gli altri eventi visivi sono immagini di corpi, di forme indefinite. E tutto è musica: i suoni sintetici (anzi robotici, e vedremo il perché) mescolati a quelli acustici (trattati tecnologicamente) dei vocalisti-attori, vivaci procedimenti ritmici alternati a incredibili «arie» aliene-umane, robotiche-umane. Si è avvolti, incalzati, sedotti da questo dispositivo di parole fonemi sibili rombi quiete distese di suoni sognanti.

LO SPUNTO narrativo-filosofico è il rapporto uomo-robot. Un robottino sta sopra il grande schermo, va su e giù, avanti e indietro, è forse la «coscienza critica» del dilemma posto da Aperghis: che ne sarà di noi con i robot, che ne sarà dei robot (diventeranno come noi, meglio di noi), ma il dilemma si scioglie nel piacere del gioco e delle invenzioni sonore-sceniche giocose. Alla fine vince la musica, che contiene pensiero, interrogativi, piacere, già di per sé, con i suoni. E questo si nota molto bene in due pezzi solo sonori di Aperghis, ascoltati nel pomeriggio prima della serata di Thinking things: Dans le mur per pianoforte ed elettronica e Scherzo per piano solo, scritto appositamente per questa Bm e per la fantastica pianista Mariangela Vacatello, e sono pezzi bartokiani paradossali, persino swinganti. Sprizzano intelligenza e humour.

Filippo Perocco con Una foglia opaca (in prima assoluta) per fortuna di teatro ne mette il meno possibile. Sarà un caso ma il suo lavoro è uno dei più bei regali del festival. Potrebbe essere un lied scenico postmoderno. Si ascolta un canto lunare che in certi passaggi ricorda il Romitelli di A index of metals e che è affidato alla vocalista Livia Rado, in flessuoso movimento perché nessuno pretende un vero lied col soprano immobile. Si ascoltano suoni radi degli strumentisti dell’Ensemble Arsenale, ben distanziati sul largo palco delle Tese: arpeggi deliziosi di piano (Roberto Durante), un sibilo dolce di synth (sempre Durante), un’arcata cupa del contrabbasso (Dario Calderone), tocchi sapienti, anche drammatici non solo discreti (ricordate la serie Obscure Records di Brian Eno?), di fisarmonica (Igor Zobin), sax (Ilario Morciano), chitarra elettrica (Lorenzo Tomio). Il testo è preso da due sonetti di Eugene Ostashevsky, in tutto il brano si respira una mirabile levità (consistente, profonda).

CON UN TESTO dello stesso autore e con l’utilizzo degli stessi strumentisti come performer Lucia Ronchetti fa esattamente il contrario. Un pastiche multistilistico il suo The pirate who does not know the value of pi (altra prima assoluta), pieno di sghignazzi, saturo di grottesco, nel quale si salvano un paio di arie per il soprano Esther-Elisabeth Rispens, bravissima vocalista e attrice.