Cesco quasi non si accorge della globalizzazione, se non distrattamente, dalla televisione di casa, dallo schermo nei bar dove scorrono le immagini in loop prima di Genova 2001, poi dell’11 settembre. Non che gliene freghi granché. Cesco vive nelle Marche, in una delle cittadine della «sonnacchiosa provincia» tra le colline e l’Adriatico dove s’è ammassata negli ultimi decenni la popolazione di quella regione. «Se si volesse stabilire il paesaggio italiano più tipico, bisognerebbe indicare le Marche, specie nel maceratese e ai suoi confini», ha scritto Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia della metà degli anni ’50. Annotava anche quanto le Marche fossero «accantonate, fuori circuito» e che non succedesse «nulla d’iperbolico» in quella che gli era apparsa «una democrazia patriarcale», «benessere medio e decenza di vita», «la terra che spende meno in spettacoli e tabacchi».

Qualcosa che, settanta anni dopo, somiglia molto allo storytelling contemporaneo sull’Italia dei Borghi che si pretendono luoghi dove tutto è rimasto com’era e capaci di funzionare da «macchine del tempo» per turisti «spender» e creduloni. Per rubare due righe al romanzo, davvero ben congegnato, che si sta recensendo: «Il problema di questi capoluoghi di provincia, tutti diversi ma quasi tutti identici, è che chi li attraversa una volta per caso o ci trascorre qualche settimana non fa che elogiarli, il forestiero sbrodola (…) in due ore s’è fatto già il piano per trasferirsi e cambiare vita…». Non è certo il caso di Cesco che il lettore incontra nell’incipit «dopo un mese di ospedale per riordinare le ossa che il Grande Tossico (tossico spacciatore di lungo corso, ndr) in persona gli aveva scombinato a seguito di una questione fra gentleman».

«CESCO E IL GRANDE TOSSICO», appunto, danno il titolo a un romanzo di Luca Pakarov (Fandango, pp. 270, euro 18) scritto durante i mesi di straniamento del lockdown, come molte cose che girano in libreria in quest’ultimo anno. Quel «fermo», probabilmente, è risultato congeniale a una tendenza manifestatasi negli ultimi due decenni che registra, tra i titoli più destinati a durare, le opere di giornalismo letterario e i reportage narrativi, anche con dosi di autofiction, come quello di cui si parla qui. Libri costruiti su resoconti documentati e personaggi quasi impossibili da inventare e per realizzare i quali gli scrittori rallentano, guardano da vicino e a lungo, e organizzano narrazioni spesso definitive per interpretare meglio i nostri tempi e quelli del recente passato.

Come Cesco (e come Angelo Ferracuti e Silvia Ballestra) anche Pakarov, classe 1977, è marchigiano, di Macerata, laureato in filosofia, circense, scrittore e giornalista anche su queste colonne oltre che per Linus e Il Tascabile, solo per citarne un paio. Se Cesco e il Grande Tossico danno il titolo al volume, a ben guardare sono altri due i protagonisti: la provincia all’epoca della globalizzazione e, più ancora della provincia, l’eroina, la «roba», la merce per eccellenza. Soggetto di tantissimo pessimo giornalismo quando fece irruzione sulla scena sotto forma di epidemia – illuminanti, come dichiara Pakarov in calce, due titoli di Vanessa Roghi, la ricerca Eroina (Mondadori, 2022) e il romanzo Piccola Città (Laterza, 2018) -, l’eroina, come ogni pandemia sembra essere diventata endemica, e vive una nuova stagion3 – per la passione triste dei tossici funzionali – senza scatenare le psicosi collettive degli anni ’80 anche grazie al crollo del prezzo del 74% rispetto agli anni Novanta.

LA ROBA, IN PROVINCIA, è arrivata mimetizzata, insieme alla globalizzazione, proprio come il lavoro precario, i capannoni, il porno in rete, le agenzie interinali, i morti per overdose, i ghetti per migranti e gli abusi di polizia oltre che, ovviamente, i centri commerciali che imbruttiscono la costa adriatica quasi senza soluzione di continuità per riempire di «cose» la vita e le case dei marchigiani.

COSE E DROGHE danno entrambe dipendenza, senza cui non si darebbe una società dei consumi. E Cesco inizia ad accorgersi che non vive più nella «dolce, serena, patetica, lucida, priva di punte» campagna descritta da Piovene. Perché se in provincia ci nasci «ci vuole un attimo a capire che non hai scampo».