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Un archivio vivente di gesti popolari

Un archivio vivente di gesti popolari

I giorni e le notti, l'arte di Eduardo "Benché si sappia che Eduardo facesse di tutto per scrollarsi di dosso il marchio partenopeo di Pulcinella, glorioso ma sentito come limitante, c'è poco da fare: egli era una maschera..."

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 1 febbraio 2014

Credo che l’enorme successo popolare del teatro di Eduardo De Filippo (in vita e oltre) si basasse essenzialmente sulla concomitanza di due fattori: il preteso “realismo” della recitazione, in cui gli spettatori avevano l’impressione di ritrovare sulla scena le vicende e i gesti quotidiani della loro vita, e una patina di “pirandellismo”, adatto a far balenare comunque davanti agli occhi degli spettatori stessi la prospettiva d’un orizzonte culturale più ampio.

Forse allora bisognerebbe dar ragione a Carmelo Bene, quando, ridimensionando tacitamente i testi (i copioni) scritti dall’Eduardo/autore, ne identificava l’efficacia teatrale proprio nelle operazioni che l’Eduardo/attore poneva in atto contro i suoi stessi testi, ossia nella sua capacità di “complicarsi la vita” in scena: Eduardo, dunque, autore in quanto attore, ma di quella razza speciale di attori che non si lascia mai condurre passivamente dal (suo) testo ma, pur senza arrivare a stravolgerlo, anzi, rispettando in apparenza tutte le convenzioni della messa in scena, ne dilata le connessure e ne amplifica i vuoti, fino ad attingere il più astratto virtuosismo gestuale.

Qui torna utile ricorrere alle “Note sul gesto” di Agamben (pubblicate sul n.1 di “Trafic”. Benché Didi-Huberman abbia cercato di contestare in qualche modo la radicalità apocalittica della tesi enunciata da Agamben, concernente l’invenzione del cinema come disperato tentativo di ritrovare/conservare i “gesti perduti” da parte della borghesia occidentale (perdita che andrebbe fatta risalire almeno a fine ottocento), trovo essenziale la seguente notazione sul gesto:

 “…il gesto è, nella sua essenza, sempre gesto di non raccapezzarsi nel linguaggio, è sempre gag nel significato proprio del termine, che indica innanzitutto qualcosa che si mette in bocca per impedire la parola e poi l’improvvisazione dell’attore per sopperire a un vuoto di memoria o una impossibilità di parlare”.

E’ evidente che qui si fa riferimento prima di tutto (anche se non necessariamente) al gesto muto, accompagnato al massimo da parole inintelleggibili, ansiti, gemiti, grugniti, borborigmi… E vengono in mente i tanti risvegli (soprattutto teatrali, ma anche cinematografici) di Eduardo: risvegli propedeutici all’azione vera e propria, all’avvio degli scambi di battute, al testo propriamente detto. Come ha scritto Antonella Ottai, sono i momenti in cui “ai vuoti di parola corrisponde un pieno del corpo, in quanto fonte di emissione sonora, prima che intervenga l’articolazione verbale”.  Qui, insomma, Eduardo “recita il corsivo” (ossia le didascalie).

Non si trattava certo di vuoti di memoria. Ma perché questo “non raccapezzarsi nel linguaggio”, in Eduardo, si concentrava sui momenti del risveglio o, in alternativa, dell’addormentarsi? Evidentemente per il loro carattere di soglia, di passaggio da uno stato all’altro, che sospende la piena ri-acquisizione (o la perdita) della coscienza e del logos. Non si tratta solo di un gesto, inoltre, ma di una serie concatenata di gesti, tic e falsi automatismi corporei, sulla cui esecuzione, con arte raffinata, Eduardo finge di non poter esercitare alcun controllo, approfittandone in realtà per “tirarla alle lunghe”. Già Carmelo Bene aveva notato come il gesto di soffiarsi il naso, per Eduardo, poteva benissimo durare mezz’ora.

Di fronte a questo archivio vivente di gesti popolari, il pubblico non può che  applaudire, ritrovando per un attimo ciò che ha perduto, ossia l’illusione di una persistenza: ma occorre rendersi conto che il virtuosismo di una simile gestualità risulta potenziato nella misura in cui è eseguito, in un certo senso, non da un semplice interprete, ma da una personificata quintessenza teatrale, che potremmo anche chiamare col semplice nome di maschera.

Benché si sappia che Eduardo, come del resto Peppino e Titina, facesse di tutto per scrollarsi di dosso il marchio partenopeo di Pulcinella, glorioso ma sentito come limitante – benché non portasse una maschera, altro che in rare occasioni – c’è poco da fare: egli era una maschera, il suo volto stesso lo era, e nulla è più sorprendente di assistere alla progressiva ri-animazione, quasi un accesso prodigioso alla vita organica, d’una maschera fino a quel momento inanimata.

Ecco dunque la centralità del risveglio in Eduardo, le sue infinite variazioni su questo tema. Si prenda una delle registrazioni televisive di Natale in casa Cupiello. Al ciabattare affaccendato della moglie che faticosamente si muove nella camera, tra i letti, il comò e l’ingombrante sagoma del Presepe in costruzione, ai suoi ripetuti richiami (“Lucariè, scetete. Songhe ‘e nove”), rispondono dapprima solo gemiti soffocati, provenienti da sotto le coperte. Poi emerge qualcosa, un drappo nero avvolto, contro il gelo, attorno al viso – e non è facile districarsi dal drappo, liberarsi dal suo inviluppo quasi soffocante. Sbadigli. Brividi di freddo. Gli occhiali. La solita domanda: “Fa freddo fuori?”. Concetta , per quanto stizzita da questo rituale che evidentemente si ripete ogni mattina, gli porta il caffè, che però è una schifezza. Eduardo si alza tremando, si stira, vacilla, starnutisce, sbadiglia… E’ come se il suo corpo non solo non volesse saperne di tornare alla realtà quotidiana, ai doveri e oneri della vita cosciente, ma intendesse anche ritardare il momento in cui si avvierà il meccanismo inesorabile, in qualche modo previsto e prevedibile, della commedia: una serie di starnuti, di brividi, di sbadigli, costituisce qui il complesso delle variazioni che servono a mettere in crisi, sia pure temporaneamente, il testo, inteso come ripetizione, replica vera e propria, da eseguire tutte le sere in modo identico.

Questa messa in crisi del testo raggiunge peraltro, nel terzo atto della stessa pièce, le vette del più straordinario virtuosismo, quando Luca Cupiello è costretto a letto dall’ictus, ed Eduardo mima la perdita della gestualità (il braccio sinistro gli ricade inerte) e delle parole stesse (che la bocca semi-paralizzata non riesce più ad articolare con chiarezza).

Ma Eduardo, propriamente parlando, sembra che si svegli anche quando va a dormire. Mi riferisco ora a una sequenza cinematografica, quella che apre Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli.

Dopo una carrellata circolare, prima in un senso poi in un altro, lungo le stanze del vecchio palazzo nobiliare fatiscente, già avvolte nell’oscurità, la macchina da presa inquadra una porta che si apre. Sullo sfondo, si intravvede Eduardo, nei panni del principe di Roviano, proprietario del palazzo, sprofondato in una poltrona. Sembra che dorma, ma uno stacco sul piano ravvicinato ce lo mostra mentre la sua testa crolla in avanti, come se stesse per assopirsi. In realtà si sta svegliando – accenna appena un educato sbadiglio (dopotutto è un principe), si deterge la fronte con un fazzoletto ripiegato, guarda l’orologio e deve constatare che si è fatto tardi, perché si alza, si, dalla poltrona, ma per andare a dormire. Dopo aver constatato l’ennesima rottura nel pavimento, e averla nascosto alla meglio con un tappeto, spegne la luce in camera da letto, si toglie la giacca da camera, e allora vediamo che, sotto, porta già il pigiama. Va a letto, dunque, dopo essersi svegliato – e quando si sarà addormentato, con l’aiuto di un romanzo giallo che ha già letto infinite volte (è “Sangue sul cuscino” di Spillane, ed Eduardo non manca di indirizzare un’occhiata sospettosa sul cuscino dove sta per poggiare la testa), comincerà la ronda dei fantasmi, che prendono possesso del palazzo ormai avvolto nella più completa oscurità.

Sia che mimi (in realtà, amplifichi) il risveglio del proletario Luca Cupiello, quello del principe Annibale di Roviano o uno dei tanti suoi altri personaggi, è attraverso una sorta di sospensione o di rallentamento, che Eduardo si prende il tempo necessario perché il gesto si dispieghi – e il gesto (o la serie di piccoli gesti) si amplifica accompagnato da un sommesso borbottio che è quasi un silenzio, provocato da quell’ideale bavaglio che va anche sotto il nome di gag: silenzioso ed eloquente. Comunque magistrale.

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