Visioni

Un archivio di lotta e l’utopia queer del movimento Lgbt

Un archivio di lotta e l’utopia queer del movimento Lgbt

Intervista L’Aids, le diverse soggettività, la memoria collettica. Una conversazione con il regista e attivista francese Stéphane Gérard, autore di «History doesn’t have to repeat itself» che sarà presentato a Torino nel cinquantesimo anniversario di Stonewall, il prossimo 28 giugno

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 25 giugno 2019

Stéphane Gérard è un regista e attivista francese (membro del collettivo di cinema sperimentale queer What’s your Flavor?) che nel 2014 ha firmato il suo primo lungometraggio documentario, History doesn’t have to repeat itself (La storia non per forza si ripete), dedicato al movimento Lgbt e all’importanza di trasmetterne la memoria storica attraverso la creazione e la valorizzazione degli archivi. Il film dà voce a diverse figure di attivisti impegnati nella raccolta di memorie legate alla lotta contro l’Aids, nella realizzazione di film, riviste, festival cinematografici, spettacoli teatrali che offrono la possibilità alla comunità di esistere, conoscere la propria storia e farla vivere al presente.

In occasione del 50° anniversario dei moti di Stonewall, la rivolta di omosessuali e trans che il 28 giugno 1969 si accese contro l’ennesimo atto di repressione della polizia in un bar gay di New York, il film di Gérard arriva anche in Italia e sarà presentato venerdì 28 giugno alle ore 18 per la prima volta all’Unione culturale di Torino dopo un laborioso processo di realizzazione dei sottotitoli, che non sono un accessorio ma costituiscono una delle componenti visive di un’opera complessa. Il film infatti testimonianze orali, immagini di archivio, immagini del presente in una forma sperimentale peculiare del percorso del giovane regista francese formatosi studiando il cinema militante di Lionel Soukaz.

Attualmente, Gérard è anche è co-curatore con Nicole Brenez della retrospettiva Libérations Sexuelles, Révolutions Visuelles in corso fino all’11 luglio alla Cinémathèque française di Parigi e che propone un vasto programma di film Lgbt scelti tra i più impegnati sia politicamente sia esteticamente, con molti titoli che furono censurati o sono stati dimenticati, tra cui diversi sguardi non occidentali sul desiderio e la sessualità. 

Com’è nato «History doesn’t have to repeat itself»?
Dal grande desiderio di raccontare una storia marginalizzata, che a scuola non si studia. Durante le ricerche per la mia tesi sui film dedicati alle lotte contro Hiv/Aids ho scoperto la Aids Activist Videotape Collection raccolta da Jim Hubbard e conservata alla New York Public Library. Ho capito dunque che negli Stati uniti avevano già pensato alla questione dell’archivio e alla creazione di istituzioni che permettessero alle comunità Lgbt di inserirsi a pieno titolo nella storia. Ho scelto di andare a New York per studiare queste esperienze e raccontarle in Francia.

Il film è anch’esso un archivio in cui sette voci testimoniano di pratiche di militanza a New York da Stonewall a oggi. Come hai scelto le persone da intervistare?
Quando sono arrivato a NY nel settembre 2012 ho subito incontrato Jim Hubbard, figura che in sé racchiude attivismo omosessuale, costruzione di archivi, ricerca nell’ambito del video e del cinema sperimentale: tutte le dimensioni che desideravo esplorare. Grazie a lui ho conosciuto anche Sarah Schulman e il suo lavoro sulla geografia della comunità e sulla gentrification. Poi sono stato ad Act up NY dove ho conosciuto Michael Tikili dell’associazione Queerocracy che mi ha introdotto al loro lavoro sull’intersezionalità e mi ha fatto conoscere le Radical Faeries, gruppo che pratica un mix di spiritualità e gaiezza e gestisce un giardino comunitario chiamato Le Petit Versailles. Quando ci sono stato era in corso un omaggio-commemorazione per Harry Hay a cui partecipava tra gli altri lo scrittore Perry Brass, esponente storico del Gay Liberation Front: lui mi ha raccontato la sua esperienza nel giornale del GayLib «Come Out» aggiungendo alla storia della militanza tutto l’aspetto della creatività. È lui che mi ha parlato della BAAD! (Bronx Academy of Arts and Dance)… insomma ogni incontro mi ha condotto a nuovi incontri.

Perché hai scelto di non mostrare il viso ma fa sentire solo le voci delle persone intervistate?
Ci sono diverse ragioni per cui non volevo realizzare il classico documentario pieno di «teste parlanti». Volevo sperimentare una forma nuova, queer e coerente con quel che desideravo esprimere. Mi premeva non creare delle figure eroiche. Le immagini di volti che parlano tendono a trasformarsi in icone mentre il mio progetto era raccontare la dimensione collettiva dell’esperienza militante, l’eterogeneità delle traiettorie e volevo evitare di individualizzare i ritratti che emergevano dalle interviste. Senza il volto, la presa di parola si libera anche dalle rappresentazioni che elaboriamo a partire dall’apparenza. Tra le voci intervistate ci sono persone trans, bianche, non bianche, gay, lesbiche ma non volevo che le informazioni passassero attraverso un’immagine che tra l’altro è fuorviante perché lo spettatore proietta sempre delle idee sull’immagine. Volevo lasciare a loro la libertà di situarsi perché sta a noi e non alla nostra immagine dire ciò che siamo. Si trattava anche di rispondere a un’esigenza economica: avevo poco denaro a disposizione e il lavoro va pagato quindi a NY ho lavorato completamente da solo, non potevo permettermi ingegneri del suono o operatori.

«History …» ha una forma complessa di cui i sottotitoli sono parte integrante.
Sì, il testo è un elemento che mi permette, tra le altre cose, di differenziare cromaticamente le diverse voci che parlano mentre, insieme allo scritto e al sonoro, scorrono le immagini di gruppi, di azioni collettive, feste, manifestazioni, momenti in cui si crea la comunità. Tali immagini sono state trattate in modo da assumere una consistenza onirica per evocare una sorta di utopia, come se gli ideali espressi dalle voci si realizzassero per dare forma a una società queer.
Nelle sequenze d’archivio che utilizzi emerge forte la dimensione del conflitto interno al movimento, una scelta significativa che permette anche di tessere legami vivi tra passato e presente.
La forza della politica sta nel dibattito. Il pensiero e la dialettica ci salvano. Esistono molte forme di vita, non una sola giusta e vera. La ragion d’essere delle lotte Lgbt è di trasformare la pluralità, il confronto e il conflitto in un modo di vivere. Nel film ho cercato di dare spazio alle intersezioni e alle collisioni tra lotte diverse (contro omofobia, transfobia, razzismo, classismo) e alle traiettorie di diverse soggettività. Volevo mostrare che la storia si ripete, che alcuni dei problemi che affrontiamo oggi hanno radici storiche e che le soluzioni di ieri magari oggi non sono più valide ma è utile conoscerle.

Come ha scelto il repertorio da inserire nel documentario?
Ho selezionato sequenze tratte da archivi come i Lesbian Herstoy Archives che fossero accessibili gratuitamente non solo a me ma a chiunque, visto il film, avesse voglia di andare a New York e scoprire le sequenze per intero. Ho scelto di utilizzare materiali che aggiungessero elementi nuovi, anche problematici, a quanto raccontavano le voci. La sequenza con la militante lesbica Jean O’Leary e quelle con Sylvia Rivera, figura di primo piano nella rivolta di Stonewall, sono importanti: la comprensione delle questioni trans nel 1973 non è quella che abbiamo attualmente e anche i linguaggi sono cambiati. Sylvia parlava di sé come una street queen, non come una persona trans. O’Leary rifiuta di riconoscere che Rivera è una donna, la accusa di essere un uomo che scimmiotta una femminilità convenzionale e si scaglia contro gli uomini che prendono la parola al posto delle donne e tutto questo dopo che Vito Russo da quello stesso palco ha zittito la folla per darle la parola dicendo: «Ascoltatela, ascoltarci è il minimo che possiamo fare gli uni per gli altri». Sono momenti che mi danno i brividi, c’è questa idea di essere insieme nonostante i conflitti.

La narrazione che offre il tuo film è corale e priva di nostalgia, una scelta precisa rispetto al modo di raccontare la storia.
In questi ultimi anni, individui, organizzazioni e associazioni stanno riflettendo molto sulla storia della comunità. Quando ero a New York nel 2012-2013 per girare il mio film, ci furono diverse mostre e documentari dedicati alle lotte contro l’Aids degli anni ’80 e ’90 e ultimamente anche in Francia c’è un certo interesse per quel periodo come dimostra il film 120 battiti al minuto di Robin Campillo. Ma bisogna fare attenzione alla nostalgia. Nell’ambito del progetto PosterVirus del gruppo canadese Aids Action Now!, gli artisti Vincent Chevalier e Ian Bradley-Perrin realizzarono un’opera intitolata Your Nostalgia is Killing Me (La tua nostalgia mi uccide). L’artista Camilo Godoy dell’associazione Queerocracy mi spiegò che quell’opera permetteva di mettere in guardia dal fatto che affrontare il passato dell’epidemia in modo unicamente nostalgico poteva costituire una minaccia nei confronti di una riflessione attiva sulla sieropositività oggi. Il racconto storico può dare occasioni di aprire, riprendere o proseguire dibattiti su lotte e resistenze del presente. Sono necessari documenti, materiali d’archivio e testimonianze perché è essenziale che la storia delle lotte sia narrata da chi le ha condotte per impedire falsificazioni ad uso dei poteri che allora si resero responsabili di una serie di atti ostili alla comunità e dei loro eredi di oggi.

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