Nat è una donna in fuga. Non perché sia autenticamente minacciata da qualcuno o da qualcosa. Nessun nemico all’orizzonte, non una guerra che provoca morti indiscriminate, non un fenomeno naturale di portata catastrofica. Cerca riparo da atrocità che non riesce a raccontare, lei che è un’interprete, che conosce un particolare dialetto africano e che, per questa abilità, riporta le testimonianze di donne scampate da un inferno in Terra. Le parole di chi cerca accoglienza dopo aver vissuto in prima persona ogni tipo di disgrazia e devastazione, per Nat si trasformano in qualcosa di doloroso, di impronunciabile. Un atto di egoismo? Una resa che non ci si può permettere in un’epoca come questa? Qualsiasi sia la risposta, la traduttrice si è fatta da parte a tempo indeterminato portandosi dietro i propri sensi di colpa.

IL RIFUGIO prende la forma di una casa in un paesino rurale della Spagna, La Escapa. Uno di quei posti che nei documentari o in brevi vacanze, sembrano mettere in discussione la malsana e anonima quotidianità della vita in città. Pochi abitanti che sanno tutto di tutti, orti che producono verdure, economie solidali e le montagne a protezione di un luogo ideale per prendersi una pausa dal mondo. Ma le cose non sono così semplici, i documentari non dicono tutta la verità, le vacanze producono sbornie e, soprattutto, in ogni angolo del pianeta, anche il più suggestivo, si possono intercettare orrori da cui è necessario allontanarsi di nuovo. È sufficiente incontrare uno o più uomini.
Il primo di questi, Nat se lo trova davanti, appena arrivata. È il proprietario della sua nuova abitazione, un rudere che cade letteralmente a pezzi. Sin dalle prime battute, è evidente quanto sia sgradevole l’affittuario, un misogino senza scrupoli con intenti prevaricatori. Il secondo, è un vicino che crede di essere un artista del vetro. Uno che si pone immediatamente come un amico per ottenere riconoscimenti. Altrimenti detto, un viscido. Il terzo, Andreas, soprannominato «il tedesco», che possiede una stazza simile a una delle montagne che circondano il paesino. È proprio quest’ultimo a imporre un’improvvisa sterzata, anzi più d’una. Brutale, ripugnante in alcune sue pretese e, al tempo stesso, misterioso e attraente, Andreas diventa il centro delle attenzioni di Nat. Una vicenda, quella di questa coppia, raccontata da Sara Mesa nel romanzo Un amor e che la regista catalana Isabel Coixet ha portato sul grande schermo con lo stesso titolo.

IN CONCORSO alla Festa del Cinema (Progressive Cinema), il film si presenta in prima battuta come una commedia che sullo sfondo mantiene un aggancio con la tragica realtà di chi cerca lo status di rifugiata. Poi, come accennato, gli eventi degenerano ma, improvvisamente, accade qualcosa che dà senso al titolo. Una storia di sesso e amore, improbabile eppure travolgente. E ancora tutto muta quando le relazioni tra i personaggi si incancreniscono senza un vero motivo. Potevano stare tutti bene e invece no.
Di Un amor, oltre alle performance degli attori, colpisce questo variare di ritmo su uno spartito apparentemente monocorde. Gli ambienti sono sempre gli stessi, così come gli individui che si muovono in questo girone desertificato, svuotato di ogni sentimento. Staticità e movimenti repentini, per raccontare una sorta di malessere che non ha un nome e che comunque esiste. Si ride, si rabbrividisce, si prova compassione e tenerezza. Vittima di un incantesimo, a Nat non resta che decidere se lasciarsi andare, rischiando un’inconsapevole prigionia, o rimettersi in cammino con una diversa consapevolezza.