Per un festival di Venezia che ci aveva abituati negli anni scorsi ad una presenza di opere estremo orientali, sia quantitativa che qualitativa, assai importante e significativa, l’offerta dell’edizione di quest’anno sarà un po’ più «povera». L’opera più importante quest’anno sarà senza ombra di dubbio, ma per una serie di motivi assai eterogenei, l’ultimo lavoro di Hayao Miyazaki, che parteciperà al concorso internazionale con il suo “The Wind Rises”. In questo mese trascorso dalla sua uscita nei teatri giapponesi, in cui il film veleggia verso i 50 milioni di euro d’incasso, è stato detto e scritto di tutto. Opera senile, quasi da «demenza senile» lo hanno descritto impietosamente alcuni critici giapponesi, specialmente di area «left», anti giapponese e lavoro di un traditore sono invece le critiche piovute su Miyazaki dall’area più nazionalista. Ma anche dai paesi vicini, con cui le tensioni sono sempre più accese, sono volate non certo parole leggere, accusando il lungometraggio di non portare rispetto per i paesi e le vittime su cui la violenza bellica giapponese è stata perpetrata. Insomma un vespaio a cui lo stesso regista ha dovuto in qualche modo rispondere con varie dichiarazioni e con un pamphlet pubblicato sul mensile dello Studio Ghibli che come hanno fatto notare in molti andrebbe considerato l’altra parte della medaglia rispetto al film, la controparte necessaria da accompagnare al lungometraggio animato. Fra i tanti temi affrontati nello scritto c’è anche la netta opposizione alla guerra ed al tentativo dell’attuale governo giapponese di ratificare la costituzione, specialmente l’articolo 9 che proibisce al paese di dotarsi di un esercito che non sia solo di difesa. Il punto è centrale perchè in “The Wind Rises” viene raccontata la storia di Jiro Horikoshi, ingegnere aeronautico prima e durante la Guerra del Pacifico, la sua storia d’amore con una giovane ragazza malata, ma soprattutto la sua tenacia per realizzare l’aereo Mitsubishi A6M Zero, una rivoluzione di stile per le sue forme a la sua leggerezza ma pur sempre un’arma dispensatrice di morte mandata a mietere vittime nei paesi circostanti, senza che il dramma delle popolazioni colpite sia mai mostrato. Sia chiaro, checchè se ne dica, il film è una delle vette artistiche raggiunte da Miyazaki e dal suo studio in questi trent’anni dalla sua fondazione, certo per le splendide animazioni, ma qui niente di nuovo, ma soprattutto per la problematicità del lavoro che tocca gangli delicatissimi e vitali del nostro abitare la contemporaneità. La posizione dell’artista nel mondo, le sue responsabilità, la vita al tempo del disastro e della mobilitazione totale e specialmente il diritto per colui che crea di isolarsi nella sua torre d’avorio, una modalità ritenuta scandalosa nella nostra epoca di connessione totale sempiterna, ma che alla fine paradossalmente permette un contatto ed una connessione col mondo forse più forte e profonda. Un lavoro che fa riflettere, di certo a suo modo scandaloso e difficile da digerire, ma se questa è un’opera senile, ben vengano delle altre.
In concorso ci sarà anche  “Stray Dogs” del taiwanese, ma nato in Malesia, Tsai Ming-liang che proprio al Lido nel 1994 vinse il Leone d’Oro con “Vive L’Amour “e, ancora giovane, gli spalancò le porte dell’apprezzamento internazionale, che continuò a Berlino e a Cannes dove con una delle sue opere più conosciute anche al grande pubblico, “The Hole”, si guadagnò il premio Fipresci della critica internazionale nel 1998.
Ritorna a Venezia anche Sion Sono, l’autore giapponese passato al Lido due anni or sono con il bel “Himizu”, opera che fra le altre cose era anche uno dei primi lavori ad affrontare e cercare di rendere conto della tragedia del terremoto e conseguente crisi nucleare di Fukushima. Sarà nella sezione Orizzonti con “Why Don’t You Play in Hell”, probabilmente un ritorno ad uno stile visivo più lussureggiante, quello che caratterizzava “Strange Circus” per intenderci, ma che si preannuncia come una commedia surreale e sanguinolenta, una sorta di ritorno alle origini per il regista e poeta giapponese. Chi continua invece sulla stessa strada mettendo un altro tassello nel suo opus di documentarista, uno dei più importanti in circolazione al giorno d’oggi, è Wang Bing che a Venezia presenterà fuori concorso “Til Madness Do Us Apart”. Quasi quattro ore per un lavoro coprodotto da Hong Kong, Francia e Giappone con cui il regista cinese getta uno sguardo su un decrepito ospedale manicomiale nella provincia di Yunnan, zona situata all’estremo sud ovest di quella vasta e multiforme nazione che è la Cina. Ancora una volta l’occhio attento e poetico di Wang Bing saprà probabilmente scoprire un angolo dimenticato del suo paese e svelarci le vite di chi vive ai margini, non solo geograficamente parlando. Nella stessa sezione sarà presente anche il remake giapponese di “Unforgiven”, il western diretto da Clint Estwood nel 1992 che gli valse ben quattro Oscar. Diretto dal sud coreano Lee sang-il, già premiato per il giapponese “Villan”, il film ha fra i suoi protagonisti Ken Watanabe, l’attore giapponese che, fatta eccezione per l’ottima Rinko Kikuchi vista di recente in “Pacific Rim”, sta avendo più successo in terra americana. Sarà proprio lui a interpretare la parte che fu di Estwood in una storia che viene trasporta in terra giapponese verso la fine del diciannovesimo secolo, in quel periodo di passaggio fra la fine del periodo Edo ed l’inizio dell’epoca Meiji. Ancora fuori concorso vedremo “Space Pirate Captain Harlock”, lungometraggio realizzato interamente in Cg ispirato al famoso manga omonimo e poi anche serie animata di grande successo, creato da Leiji Matsumoto alla fine degli anni settanta. Questo lungometraggio che ha già scatenato l’interesse degli appassionati di manga e anime di mezzo mondo è diretto da Shinji Aramaki che fino ad ora purtroppo ha lasciato gli spettatori più di una volta con l’amaro in bocca con lavori in Cg sempre di buona se non ottima fattura tecnica, ma mancanti di personalità e di quel quid che li facesse decollare artisticamente. “Appleseed, Appleseed Ex Machina” e l’ultimo “Starship Troopers: Invasion” sono senz’altro interessanti esperimenti con la computer graphic, la speranza è che quest’ultimo lavoro possa rappresentare quel salto di qualità per la carriera del cinquantaduenne regista e mecha designer giapponese.