Un abbecedario in marmo del fascismo
Storia del Novecento Il monumento alla vittoria di Marcello Piacentini a Bolzano è diventato un museo interattivo con un percorso sulla memoria che racconta gli anni della dittatura. Fra molte polemiche
Storia del Novecento Il monumento alla vittoria di Marcello Piacentini a Bolzano è diventato un museo interattivo con un percorso sulla memoria che racconta gli anni della dittatura. Fra molte polemiche
Ventuno luglio 2014. Sette giorni prima del centenario dello scoppio della prima guerra mondiale, si inaugura alla presenza del sindaco di Bolzano, Luigi Spagnolli, il presidente dell’Alto Adige, Arno Kompatscher e il ministro della cultura del governo italiano, Dario Franceschini, il monumento per eccellenza che ricorda quel conflitto: il monumento alla vittoria progettato dall’architetto Marcello Piacentini e costruito tra il 1926 e il ’28. La decisione di aprirlo al pubblico e di creare il percorso espositivo è stata presa congiuntamente nel 2012 da stato, provincia e comune, dopo l’appello lanciato nel 2010 dall’archivio storico di Bolzano di «storicizzare, depotenziare e musealizzare i monumenti dell’era fascista per creare una memoria condivisa e condivisibile da parte della società civile».
Il monumento alla vittoria è simile a un gigantesco arco di trionfo voluto da Piacentini come «primo monumento veramente fascista» dotato di un nuovo tipo di colonna: quella littoria che sarebbe diventata simbolo dell’architettura fascista (vedi la foto, ndr). Inciso nel marmo bianco, sul lato est che guarda il Ponte Talvera e il centro storico della città, urla in latino che «Qui (sono) i confini della Patria. Pianta le insegne! Da qui educammo gli altri alla lingua, al diritto, alle arti». Fu soprattutto questa scritta l’oggetto di tante dispute, verbali e fisiche, fino a far apportare una recinzione in ferro negli anni settanta in seguito ai (vani) tentativi di farlo saltare in aria. Si parlava spesso di auspicata demolizione di quella che fu la porta di accesso alla «nuova Bolzano», la parte italiana, fascista, da costruirsi a ovest del fiume che attraversa il capoluogo della provincia, e per Mussolini persino la porta di accesso al grande impero fascista. Punto di passaggio dal regno germanico (barbarico) al regno italico (culla delle arti).
È bastato un piccolo colpo di genio del gruppo consulente storico al percorso didattico-storico-politico-culturale creato nei sotterranei per abbatterlo, simbolicamente, grazie all’inserimento di quattro «spazi ad angolo», veri e propri punti di riflessione situati nei quattro punti cardinali che fanno da pilastri, o da satelliti – secondo il punto di vista di ogni spettatore – ai due percorsi di visita proposti contemporaneamente. Uno interno narra in tredici stanze la storia del monumento stesso, uno esterno crea attraverso dodici stanze il contesto storico in cui era nato, portando con sé il ventennio fascista, l’occupazione nazista, l’opzione, il 1945, gli anni cinquanta con proteste e richiesta di un Alto Adige autonomo, gli anni sessanta dei bombaroli, gli anni settanta dei giovani storici, gli anni ottanta della presa di coscienza, eccetera. Nei quattro «angoli», all’ombra di una rappresentazione stilizzata dello stesso monumento alla vittoria sotto forma di una gigantesca «M», ci si interroga sul quesito Che cos’è un monumento? (con l’aiuto di modellini di altri noti edifici eretti per ricordi simili), si analizzano menti e mani che hanno contribuito alla sua realizzazione Per un abbecedario del monumento alla vittoria, si risponde alla domanda Chi era l’architetto Marcello Piacentini? illustrando vita e filosofia di colui che aveva progettato questo «altare della patria» guardando i potenti segni lasciati in giro dall’impero romano nei territori conquistati, e si chiude con un Eppur si muove… per stimolare una discussione partecipata attorno al futuro di un monumento come questo, di forte impronta politico-culturale sulle terre e i loro abitanti attorno.
Perché abbiamo parlato di colpo di genio? Interrogarsi sul monumento di per sé storicizzandolo smonta la potenza immaginifico-mitica che altrimenti schiaccia eternamente sul presente la sua indelebile impronta di un passato, eroico per quanto dir si voglia, pur sempre passato. Il decifrare di dettagli artistico, architettonico, scultorei di un costrutto-simbolo depotenzia ideali e ideologie che l’hanno fatto erigere, la biografia del suo costruttore ci conduce verso il contesto più ampio in cui è nata ed è stata venerata quell’immagine-leitmotiv che sta per Timore, Potere, Solennità.
Restituire l’insieme al proprio tempo aiuta a elaborare la storia (propria e di altri); ci si può così chiedere quale futuro esista per monumenti simili che tengono alta la tensione, anche ai giorni nostri, e rendono possibile quella discussione di base che serve per smontare una volta per tutte l’ipocrita focalizzazione sui «meriti» di un popolo – che sono piuttosto i frutti di sangue e dolori – per lasciarlo soltanto vivere per quello che è: un monumento in una città sotto due dittature.
Recita così, infatti, il sottotitolo dato a questo mausoleo della pace (dov’è anche sepolta fisicamente l’insegna simbolo di quel luogo che lo volle come Piazza della pace, e che aveva visto la luce soltanto per pochi mesi dalla fine del 2001 all’ottobre 2002, prima di essere relegata in una buia cantina dopo l’esito negativo del referendum richiesto dalle destre.
La giunta comunale – mostrando la sua disapprovazione rispetto al voto popolare – indicò sulla nuova insegna di Piazza della Vittoria che essa fu «già Piazza della Pace».
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