Umbria jazz winter, la formula è vincente ma ora si deve cambiare
Festival Chiusa la ventitreesima edizione della kermesse musicale. Tra omaggi a Sellani e i medley dei Doctor 3, spicca l'agile pianista Jon Batiste e la rilettura di Coltrane da parte di Joe Lovano
Festival Chiusa la ventitreesima edizione della kermesse musicale. Tra omaggi a Sellani e i medley dei Doctor 3, spicca l'agile pianista Jon Batiste e la rilettura di Coltrane da parte di Joe Lovano
Top Jazz ovvero la serata per i vincitori del referendum di Musica Jazz, ha chiuso ieri la XXII edizione di Umbria Jazz Winter. Introdotti dal direttore del mensile Luca Conti, tra gli stucchi del teatro Mancinelli hanno suonato i pianisti Franco D’Andrea (musicista dell’anno, premio P.Candini) ed Enrico Pieranunzi (una vita per il jazz, premio G.C.Testoni), la vocalist Elisabetta Antonini (miglior nuovo talento, premio G.M.Maletto) e l’XY quartet. Nella ciclica ripetitività dei concerti, in programma dal 27 dicembre, si è trattata di una serata diversa: eppure la formula «seriale» tiene ed il pubblico – nonostante il clima polare – ha riempito il Mancinelli, il palazzo del Popolo (sale Expo e 400) e il ristorante al S.Francesco. I tagli di budget – maggiore la presenza di sponsor del territorio – e la perdita di alcuni spazi (sala del Carmine, Museo E.Greco) non hanno impedito a Umbria Jazz Winter di mantenere la sua posizione di rendita in una stagione che ha visto per la prima volta le edizioni invernali dei festival di S. Anna Arresi e di Roccella Jonica, ciascuno con la sua specificità.
In generale e, in particolare nei concerti tra il 28 ed il 30 dicembre, la musica ad Orvieto ha oscillato tra espliciti omaggi ad artisti, album e stili e quello che si potrebbe definire un jazz «neo-post-moderno», repertori e nuova creazione. Tra i due estremi, peraltro sfumati, si collocano Doctor 3 ed il duo Fabrizio Bosso/Julian O.Mazzariello. Danilo Rea, Enzo Pietropaoli e Fabrizio Sferra lavorano da anni su brani jazz, pop e rock intrecciandoli a volte in medley vertiginose, impastando suoni e memorie. Non si tratta, però, di sdoganare Donovan e Sting quanto di lavorare su un immaginario sonoro diverso, complementare: di Life in Mars di Bowie si può, ad esempio, denudare la sottile melanconia ma, soprattutto, ridefinire la melodia giocando su ritmi, velocità, dinamiche, timbri.
Si crea, quindi, da materiali visibilmente noti come ha sempre fatto il jazz. La stessa operazione è praticata dalla tromba virtuosa di Fabrizio Bosso e dal piano eclettico ed enciclopedico di Julian Olivier Mazzariello. I due (Tandem è il loro recente cd uscito per la Universal) sono, però, meno eversivi di Doctor 3, più vicini alla tradizione ma il lavoro su suoni e stili è eccellente. Partiti da Gershwin sono arrivati al Bruno Martino di Estate.
Gli omaggi hanno visto quello un po’ sbiadito dell’Anat Cohen Brazilian Quartet al «choro»: scelta di brani ponderata (da Guinga a Gismonti), dimensione cameristica ma nessun guizzo alla Gabriele Mirabassi. Esclusiva assoluta per Ujw il progetto A Love Supreme 50th Anniversary, guidato dal tenorista Joe Lovano insieme al collega Chris Potter, al pianista Lawrence Fields ed al batterista Jonathan Black. Ispirato ad una registrazione della suite del ’64 con John Coltrane ed Archie Shepp, il recital ha visto la presenza del contrabbassista Cecil McBee, l’unico anagraficamente e musicalmente coetaneo di quella straordinaria esperienza. Mentre Potter ha un’impressionante padronanza tecnica del linguaggio coltraniano, Lovano lo batte in espressività ed approccia la suite con un misto di reverenza ed esaltazione.
Una parte del pubblico non ascolta tutti e quattro i movimenti oppure Impressions o Lonnie’s Lament; a distanza di cinquant’anni la musica di Coltrane ha spessore e forza inconciliabili con un’idea stilizzata ed alla moda del jazz: la suite «mistica» avvince e scuote alle fondamenta e costringe chi ascolta a schierarsi. A un altro genio della musica del ‘900 si sono dedicati i Quintorigo con Roberto Gatto, ideatore del lavoro sul repertorio di Frank Zappa ed autore degli arrangiamenti per archi, sassofono, batteria e la bella voce di Moris Pradella. Da Uncle Meat a Echiona’s Art (of You), passando per Igor’s Boogie, il gruppo ha riletto partiture zappiane in un nuovo contesto sonoro, conservandone la genialità della scrittura in una dimensione cameristica e non-elettrica. Ottimo il lavoro di Gatto e prezioso il recital (quanto la chiavetta che anticipa il cd…).
Ricordando Renato Sellani ha rappresentato un momento alto della rassegna: l’omaggio al pianista milanese, da poco scomparso, era dovuto dato il lunghissimo legame con la rassegna umbra; Danilo Rea, Massimo Moriconi e Tullio De Piscopo hanno saputo ricordare Renato a vari livelli: parola, repertorio, creatività e stile, che Rea ha imitato/riletto con finezza da grande artista. «L’emozione è forte – ha detto De Piscopo –, secondo me ci sta guardando e ci sta aiutando a fare una bella scaletta»: da Donna a Resta cu’me e Blue Monk. Per quanto si è potuto ascoltare, il pianista Davell Crawford e la sua band r&b. attraversano generi diversi della black-music, con singoli momenti interessanti (quelli gospel) inseriti in un palinsesto tutto spettacolare; rientrano, quindi, nelle riletture.
E il jazz «neo-post-moderno»? La maggiore creatività, senza nulla voler togliere a nessuno, l’hanno messa in mostra Jon Batiste & Stay Human, Paolo Fresu ed Omar Sosa (esauriti tutti i concerti del trombettista, anche quelli con Daniele Di Bonaventura e Rea) ed il duo Giovanni Guidi / Gianluca Petrella. Il pianista Batiste, da New Orleans, ha un gruppo di giovani polistrumentisti che conosce il passato e lo rilegge con ironia, straniamento e fantasia piazzandosi solidamente nella contemporaneità. Fresu e Sosa rischiano molto nei loro incontri e volano spinti da una forte empatia sonora che genera una musica-arte che sconfina dal sonoro. Guidi e Petrella lavorano sua una sorta di «frammentarietà ricucita»: la musica è modulare, non ha rifermenti a repertori (solo alla fine spuntano Over The Rainbow e il Sudafrica di Mongezi Feza) ma il peso della storia è nella varietà timbrica e d’atmosfera, con schemi a volte troppo evidenti.
Mentre i Funk Off si ostinano eroicamente a riscaldare le vie medievali di Orvieto, il successo dell’edizione non nasconde un pubblico invecchiato anagraficamente, il limite di una formula ripetitiva, la contenuta presenza di nomi «del presente», la scomparsa di punti-vendita discografici e l’eccessiva dimensione di intrattenimento dei concerti al Palazzo dei Sette.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento