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Umano troppo transumano

Umano troppo transumano

Verso il futuro Da Mosè a Dante all'immortalismo della singolarità: chi ci attende alla fine della evoluzione?

Pubblicato più di un anno faEdizione del 29 aprile 2023

«Trasumanar significar per verba non si poria» dice Dante nel Paradiso (I, 70-71); in questa terzina il Poeta ammette che non si può descrivere con parole l’anelito ad oltrepassare la condizione umana per realizzare l’eterno desiderio di essere tutt’uno con la realtà divina. Sappiamo che l’intera Commedia è la descrizione di una trasmutazione interiore che consentirà a Dante, mercé il viatico del sorriso finale di Beatrice, la donna angelicata, di realizzare il supremo compimento. Transumanar vuol dire dunque, per Dante, riportare la natura umana alla sua fonte creatrice depurandola di ciò che in essa è caduco, provvisorio.

Il volto raggiante di Mosè
Un primo esempio di questo transumanar lo troviamo già nella Bibbia quando Mosè scende dal monte Sinai non sapendo che la pelle del suo volto è divenuta raggiante perché ha parlato con l’Eterno: «Così, quando Aaronne e tutti i figli d’Israele videro Mosè, ecco che la pelle del suo volto era raggiante ed essi avevano paura di avvicinarsi a lui. Come Mosè ebbe finito di parlare con loro, mise un velo sul suo volto. Quando però Mosè entrava davanti all’Eterno per parlare con lui, si toglieva il velo finché usciva fuori. I figli d’Israele, guardando la faccia di Mosè, vedevano che la pelle di Mosè era raggiante; poi Mosè rimetteva il velo sul suo volto, fino a quando entrava a parlare con l’Eterno» (Esodo 34:29-35).

Possiamo dire che questa trasmutazione, che ritroveremo nella trasfigurazione del Cristo sul monte Tabor, ma anche in altre figure divine, come in Krishna che si trasfigura mostrando ad Arjuna la sua natura divina ed universale sul campo di battaglia Kurushektra, avviene “fissando” il centro della propria esistenza nello Spirito divino che, «soffiando dove vuole», tutto anima e vivifica. Questo è esattamente ciò che perseguono anche gli alchimisti per ottenere lo stesso risultato: «fissano» il principio volatile per «incorporarlo» nella loro Pietra Filosofale.

Se volgiamo gli occhi ad oriente troviamo nel Vedanta la stessa aspirazione: «Tutto ciò che è composto si deve decomporre»; anche qui risuona il principio alchemico della trasmutazione interiore, la formula ermetica del solve et coagula, che statuisce l’impermanenza delle cose come la sola verità da realizzare per arrivare a superare la ruota del samsara, del divenire, e così unirsi (yoga) definitivamente all’Uno Principiale che giace in tutte le cose e, al tempo stesso, al di là di ogni contingente separazione e dualismo.

Dal transumanar al transumanesimo
E allora, anche se il transumanar dantesco, come d’altra parte quello di ispirazione induista, partono dalla caratteristica essenziale che determina la vita individuale, cioè la sua morte, per trascenderla nella consapevolezza di una appartenenza superiore, le differenze tra le due concezioni sono su questo punto radicali: mentre per il cristianesimo il transumanar può portare all’imitazione del Cristo e dunque alla realizzazione della promessa di Salvezza nella Vita Eterna di un corpo resuscitato nel Giorno del Giudizio, l’induismo, come il buddismo, cercano invece la Liberazione (moksa), dai vincoli del divenire (samsara) attraverso il Risveglio (satori) nella luce della realizzazione spirituale.

La differenza tra Liberazione e Salvezza è dunque sostanziale, e questo è anche ciò che separa la Via iniziatica Tradizionale, esoterica, da quella essoterica religiosa, poiché la prima sostiene che si possa trascendere lo stato umano già in questa vita, prendendo possesso ed attivando tutte le potenzialità spirituali insite nella natura umana. Anche nella cultualità misterica dell’antichità, Misteri di Iside, di Mitra, Orfico-dionisiaci, si tendeva a questa realizzazione col nome di Piccoli Misteri.

Questa concezione, lo vedremo a breve, è la stessa, apparentemente, dalla quale muove in origine il transumanare moderno, le cui deviazioni e rischi attirarono l’attenzione, sul finire della Seconda Guerra Mondiale, dello scrittore saggista, ma anche teologo, C. S. Lewis, l’autore delle famose Cronache di Narnia. Infatti, e qui nascono i problemi e i rischi, la parola trasumanare ne richiama un’altra, nata in epoca contemporanea con tonalità, sfumature ed accezioni che la pongono oggi quasi all’opposto sia di quella dantesca sia della Via iniziatica Tradizionale: il transumanesimo.

In realtà un primo scollamento tra le posizioni che, seppur differenziandosi come abbiamo appena visto, praticavano una idea puramente spirituale del transumanar, lo si ebbe forse già nel Rinascimento quando, mettendo l’Uomo al centro del Cosmo, e poi con l’idea galileiana del metodo scientifico, la scienza e la sua traduzione tecnologica cominciano a divenire l’espressione centrale dell’agire umano non solo nel ma sul mondo. Ed infatti i transumanisti contemporanei vantano tra i loro ascendenti più nobili quel Pico della Mirandola che cosi conclude la sua Orazione sulla Dignità dell’uomo: «Prese dunque l’uomo, questa creatura di aspetto indefinito e, dopo averlo collocato nel centro del mondo, così gli si rivolse: O Adamo, non ti abbiamo dato una sede determinata, né una figura tua propria, né alcun dono peculiare, affinché quella sede, quella figura, quei doni che tu stesso sceglierai, tu li possegga come tuoi propri, secondo il tuo desiderio e la tua volontà. La natura ben definita assegnata agli altri esseri è racchiusa entro leggi da noi fissate. Tu, che non sei racchiuso entro alcun limite, stabilirai la tua natura in base al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho consegnato. Ti ho collocato come centro del mondo perché da lì tu potessi meglio osservare tutto quanto è nel mondo. Non ti creammo né celeste né terreno, né mortale né immortale, in modo tale che tu, quasi volontario e onorario scultore e modellatore di te stesso, possa foggiarti nella forma che preferirai. Potrai degenerare negli esseri inferiori, ossia negli animali bruti; o potrai, secondo la volontà del tuo animo, essere rigenerato negli esseri superiori, ossia nelle creature divine».

Da questo incontro tra libero arbitrio e progresso scientifico tecnologico nasce allora una prima mutazione antropocentrica del transumanar verso il transumanesimo. Il termine viene utilizzato per la prima volta dal gesuita e teologo francese Pierre Teilhard de Chardin, che volle gettare un ponte tra scienza e fede, come tanti secoli prima di lui avevano fatto gli Scolastici, dedicando molte speculazioni al futuro della specie umana. Basti citare qui un passo tratto dal suo L’Avvenire dell’Uomo (1949): «Dio ci attende nel momento in cui il processo evolutivo sarà completo: innalzarsi al di sopra del mondo, dunque, non significa disdegnarlo o rifiutarlo, ma attraversarlo e sublimarlo». Teilhard sosteneva che Cristo agisce non solo sull’evoluzione ma nell’evoluzione, anche nella tecnologia dunque, e che la sua azione mira, in ultima istanza, alla perfezione della biologia umana. Con ciò, conseguentemente, il teologo attribuiva alla scienza e alla tecnologia un ruolo centrale, salvifico, nella costruzione della «Città di Dio». Ecco poi il passaggio in cui appare la parola in oggetto: «La Libertà è l’opportunità, offerta ad ogni uomo (attraverso la rimozione degli ostacoli e fornendogli gli opportuni strumenti), di “transumanare” esso stesso sviluppando le sue potenzialità in ogni aspetto». Come si vede le assonanze con il transumanar di ascendenza spirituale sono ancora presenti; anche la parola «sublimare» richiama concetti ermetici. Ma proprio da queste assonanze nasceranno, ben presto, le dissonanze.

E allora, partendo da questa prima, generica ed incompleta, definizione, il termine verrà specificato nella sua accezione moderna dal biologo Julian Huxley, fratello di Aldous Huxley, l’autore delle Porte della percezione da cui i Doors di Jim Morrison presero nome ed ispirazione. Nel testo In New Bottles for New Wine, del 1957, lo scienziato chiarisce come per il transumanesimo «l’uomo rimane umano, ma trascende sé stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana, per la sua natura umana». In altre parole l’ideale transumanista viene qui collocato all’interno in uno scenario di emancipazione dell’umanità da se stessa ma per se stessa, non già mantenendo un equilibrio tra piano spirituale e fisico, bensì orientandolo verso una prospettiva totalmente e compiutamente umana, in cui essa si assume consapevolmente il compito di guidare il suo stesso processo evolutivo non attraverso una progressiva presa di coscienza degli «stati molteplici dell’essere» come li definisce il tradizionalista R. Guénon, bensì esclusivamente attraverso l’avanzamento tecnologico: dalle potenzialità siamo passati al potenziamento.

Date le premesse teologiche avanzate da Teilhard de Chardin si potrebbe dire che la sua definizione restava in qualche modo ancora nel solco di una concezione cristiana del transumanesimo, mantenendosi al di qua del «potenziamento» con dei supporti biomedici. Anche qui la soluzione di continuità tra il teologo gesuita e lo scienziato biologo è sottile e va osservata con attenzione: non era stato, d’altra parte, Papa Paolo VI a sostenere che non c’era nessuna incompatibilità «strutturale» tra scienza e fede? Nel suo messaggio per la celebrazione della Giornata della Pace nel 1970 esprimeva infatti un concetto che qualunque transumanista, legato ancora alle definizione di Teilhard de Chardin, approverebbe: «L’umanità cammina, cioè progredisce verso un dominio sempre maggiore del mondo: il pensiero, lo studio, la scienza la guidano a questa conquista; il lavoro, lo strumento, la tecnica compiono la conquista meravigliosa. E questa a che cosa le serve? A vivere meglio, a vivere di più».

Dal transumano al postumano
Ma già agli inizi di questo secolo, dopo il «potenziamento» definitorio di Huxley, si va ben oltre questa idea del «vivere meglio, del vivere di più», virando decisamente verso una ulteriore possibilità. Già Nick Bostrom, fondatore della World Transhumanist Association, oggi Humanity plus, definiva la sua concezione transumanista come: «Un movimento culturale, intellettuale e scientifico, che afferma il dovere morale di migliorare le capacità fisiche e cognitive della specie umana e di applicare le nuove tecnologie all’uomo, affinché si possano eliminare aspetti non desiderati e non necessari della condizione umana come la sofferenza, la malattia, l’invecchiamento, e persino l’essere mortali».

In questa prospettiva il transumano è, allora, solo una fase preparatoria del postumano: mentre il primo è uno stadio che presenta ancora caratteristiche psicologiche, intellettuali e fisiche umane, seppur superiori al normale, dunque «potenziate», il postumanesimo, invece, come il teorico lo definisce nel suo Human genetic enhacement a transhumanist prospective (2003) disegna: «Un essere che ha le seguenti caratteristiche: aspettative di vita superiori ai 500 anni, capacità cognitive due volte al di sopra del massimo possibile per l’uomo attuale, controllo degli input sensoriali, senza sofferenza psicologica. Si tratterebbe di un ente «più perfetto» dell’essere umano e del transumano». Un postumano, sempre a detta di Bostrom, potrebbe «non solo prolungare una vita senza deterioramenti, godere di maggiori capacità intellettuali, essere più intelligente degli altri, avrebbe un corpo in concordanza coi suoi desideri, potrebbe fare copie di se stesso, disporrebbe di un controllo emozionale totale».

In linea con questi potenziamenti, chi oggi naviga nella galassia transumanista-postumanista, ad esempio nel sito di Humanity plus (www.humanityplus.org), nota chiaramente una tendenza che potremmo definire «immortalista» prendendo in considerazione l’ipotesi, non tanto di immortalità fisica nel senso di una permanenza del corpo, quanto del trasferimento della «coscienza» su supporti biomeccanici o, addirittura, creando un mix tra intelligenza naturale ed artificiale. Questo auspicato momento, per alcuni postumanisti immortalisti, viene chiamato «singolarità» e rappresenterebbe il vero passaggio dall’umano al post umano, creando un’entità senziente svincolata dal deperimento organico. Non a caso per «singolarità» si intende un’esistenza disincarnata, sotto forma di dati costituiti da pura informazione caricati su un hardware esterno; un’esistenza in cui le persone umane – ridotte non ad individui ma ad individualità monadiche – possono raggiungere così una sorta di eternità quantistica.

Riflessioni umaniste
E allora, in conclusione di questo excursus partito dal dantesco transumanar per arrivare all’immortalismo della singolarità, ciò che più fa pensare è come via via rischiamo di perdere, in una rincorsa senza fine alimentata dalla rimozione delle domande fondamentali – chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo – ciò che sostanzia l’umano: la perenne tensione nel trascendere i suoi opposti armonizzandoli, affermando così, in quell’unicum di cui parlava Ficino, il senso della propria unicità all’interno della costruzione cosmica. Chiudiamo dunque con le riflessioni che nel suo libro di fantascienza Quell’orribile forza, C. S. Lewis proponeva a proposito dei rischi legati ad una tecnologia totalmente disincarnata: la conquista della Natura da parte dell’Uomo, in un’ottica di tecnocrazia, diceva, corrisponderebbe al dominio di poche centinaia di uomini su miliardi e miliardi di altri uomini. Ogni nuovo potere raggiunto dall’uomo è, infatti, in questa prospettiva individualista, anche un potere dell’uomo sull’uomo: transumano, dunque, troppo transumano.

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