Stride parecchio con il presente l’ultimo libro di Mauro Ceruti, tra principali costruttori con Edgar Morin del pensiero della complessità, scritto con Francesco Bellusci. Stride già dal titolo: Umanizzare la modernità (Raffaello Cortina, pp. 144, euro 14). Stride nell’ambizione che lo ispira e lo nutre: ragionare sulle coordinate possibili di un cammino dell’umanità che dia senso e speranza alla parola «progresso». Arriva, la riflessione di Ceruti e Bellusci, nel mezzo di giorni, mesi, anni nei quali è difficile pensare in termini di progresso.

Sono i giorni dell’assalto terrorista di Hamas contro Israele e della reazione israeliana che sta trasformando la striscia di Gaza con i suoi 2 milioni e più di abitanti da prigione a cielo aperto in un immenso cimitero. Sono i mesi della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, che sembra destinata a durare molto a lungo. Sono gli anni in cui la crisi climatica sta diventando da minaccia realtà, colpendo già oggi la sicurezza e il benessere di persone e popoli – per primi i più fragili – e ponendo una fosca ipoteca sul destino prossimo di tutti noi contemporanei e soprattutto dei più giovani.

MA PROPRIO le degenerazioni – sociali, umanitarie, ambientali – che si moltiplicano e aggravano oggi, sono per gli autori la prova che «umanizzare la globalizzazione» non solo sia «una» prospettiva possibile, ma sia per l’umanità «l’unica» prospettiva o quanto meno la sola «capace di futuro». Scrivono Ceruti e Bellusci che occorre modificare il modo di comprendere la realtà d’impronta razionalista che vede «l’uomo scisso tra anima e corpo, tra ragione e affetti».

Questo paradigma impedisce di vedere la complessità che caratterizza la condizione umana e sociale odierna. «La complessità – sottolineano – è il mezzo necessario per concepire il fondamentale, l’emergente, l’ambiguo, l’inatteso, l’individuo, l’essere, la novità». Viviamo in un mondo in cui l’uomo dispone di una ricchezza di opportunità pratiche e tecniche senza precedenti né paragoni, solo un pensiero «complesso» può consentire di mettere questa sovrabbondanza di tecnica al servizio del futuro dell’umanità: appunto, di umanizzare la modernità. Al centro di questo scenario inedito è, per Ceruti e Bellusci, la nozione di Antropocene, che annulla la frattura – eredità del pensiero razionalista – tra natura e cultura, tra storia umana e storia della vita e della Terra.

LA PAROLA ANTROPOCENE fu coniata 20 anni fa da due scienziati, il chimico olandese Paul Crutzen e il biologo americano Eugene Stoermer, a indicare la fase attuale della storia della Terra contraddistinta da un debordante, e decisamente disturbante, dominio degli umani sulla natura. Proprio la realtà dell’Antropocene deve spingere l’uomo, nel proprio interesse di specie, a pensarsi come intimamente connesso, interdipendente, con il naturale, a sviluppare quello che Ceruti e Bellusci chiamano un «umanesimo planetario», vale a dire. «l’uscita da una concezione insulare dell’uomo, isolato dalla natura e dalla propria natura».

Ancora, l’umanesimo planetario impone un cambiamento radicale nel modo di concepire le relazioni all’interno della specie umana: «La crisi ecologica – così Ceruti e Bellusci – non ci pone di fronte al dilemma tra un modello politico o un altro, ma di fronte al bivio tra un salto antropologico o il collasso». Per questo «il nostro tempo non ha bisogno di rivoluzioni, ma di un cambiamento del paradigma di pensiero e di civiltà». Le rivoluzioni, come le guerre, appartengono al modello dei «giochi a somma nulla», fondati sulla «strumentalizzazione del rapporto con gli altri, tra i popoli, con la natura».

Il libro si chiude con un’invocazione quasi ottimistica: «L’umanità, oggi, per la prima volta nella sua storia, “è obbligata” a uscire dal paradigma dei “giochi a somma nulla” per generare un paradigma dei “giochi a somma positiva”». «Obbligata» perché fuori da questa scelta rimane soltanto un’altra via: l’autoannientamento.