Ultras, ovvero l’untore perfetto
Pandemia e colonne infami Capro espiatorio perfetto, simbolo della feccia che non piace a nessuno, gli ultras sono diventati gli untori. Mentre le attività produttive, invece, proseguono
Pandemia e colonne infami Capro espiatorio perfetto, simbolo della feccia che non piace a nessuno, gli ultras sono diventati gli untori. Mentre le attività produttive, invece, proseguono
Dagli all’untore, dagli all’ultras. Nel ventitreesimo capitolo dei Promessi Sposi, raccontando delle unzioni, Alessandro Manzoni scriveva che «il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune».
Oggi la situazione è peggiorata, se possibile. Nel tardo capitalismo il senso comune ci è imposto dall’alto, e noi abbiamo talmente introiettato il sistema di valori dominante che non riusciamo più a mettere in discussione il sistema stesso: i tagli alla sanità, al welfare, la distruzione di ogni tutela sul lavoro. La colpa è di chi trasgredisce.
La responsabilità della diffusione del virus è degli untori. È partita la caccia ai runner, ai passeggiatori. Come cecchini, i cittadini si appostano ai balconi con i telefonini per riprendere il nemico, sui gruppi di quartiere che infestano i social network e le chat si invita al riconoscimento, alla delazione. L’ennesimo decreto di emergenza prevede l’utilizzo dei droni per stanare questi pericolosi criminali. Ma i runner non bastano.
Quelli sono arrivati dopo la quarantena, a cose fatte. C’è bisogno di trovare un colpevole da situare prima che tutto ebbe inizio: l’untore zero. E a leggere i giornali, guardare la televisione e ascoltare la radio in questi giorni, lo abbiamo trovato, mission accomplished.
Il capro espiatorio perfetto è stato individuato, è il tifoso. Tutto è cominciato per colpa della partita di Champions tra Atalanta e Valencia giocata a Milano il 19 febbraio, dove quarantamila persone si sono riunite insieme creando la scintilla che ha fatto esplodere il contagio nel resto del paese. Eccolo l’untore assoluto: è l’ultras.
La cosa non stupisce, da sempre lo stadio è stato considerato un laboratorio politico dove sperimentare la repressione. I tifosi sono i folk devils: la teppa, la feccia, i cattivi a tutto tondo la cui salvezza e redenzione non interessa a nessuno come scriveva Valerio Marchi. Su di loro si collaudarono i manganelli tonfa prima di usarli a Genova.
A loro misura è stata costruita la misura del Daspo (ora è entrato nel linguaggio comune e si usa dappertutto, anche in parlamento, ma l’acronimo parla chiaro: divieto di accedere alle manifestazioni sportive) l’arresto in differita, le misure di limitazione alla libertà personale e collettiva gestite direttamente dalle questure senza bisogno dell’autorizzazione del magistrato, tutti provvedimenti al limite della costituzionalità, o anche oltre, che però, essendo inizialmente previsti solo per questa marmaglia non hanno disturbato nessuno.
L’ultras fa schifo, a destra come a sinistra. Poi queste norme sono state estesi a tutti, ma era troppo tardi. E così anche oggi i padroni hanno deciso, e i giornalisti hanno eseguito: trovato l’untore, trovato l’ultras. La causa di tutto è stata la partita tra Atalanta e Valencia. E via con ricordi, interviste, considerazioni, accuse, confessioni, delazioni. Certo, sarebbe stato meglio giocarla a porte chiuse quella partita, o non giocarla affatto.
Certo fanno davvero impressione le immagini di Parigi, con lo stato vuoto e i tifosi assiepati fuori a migliaia per la partita tra Paris Saint-Germain e Borussia Dortmund; o dello stadio di Anfield strapieno per la partita tra Liverpool e Atletico Madrid, l’ultima partita di pallone di cui si abbia ricordo. Ma queste due partite si sono giocate l’11 marzo, quando noi eravamo già in lockdown, e le abbiamo guardate con occhi diversi: che fanno quei pazzi? Ma era metà marzo, appunto. Atalanta Valencia si è giocata il 19 febbraio.
E allora vediamo un po’ di date. Quasi dieci giorni dopo la partita che per ordine dall’alto deve assumere su di sé il peccato originale del contagio, il 27 febbraio, il sindaco Beppe Sala ancora si bulla sui social con il terribile video #milanononsiferma. Il giorno dopo, 28 febbraio, è il sindaco di Bergamo Giorgio Gori a lanciare #bergamoisrunning. Confindustria rilancia entrambi i video ed entrambi gli hashtag. C’è da lavorare, c’è da fatturare.
Le fabbriche non possono chiudere. Tutti minimizzano, presidenti di Regione e segretari di Partito. Fontana, Conte, Salvini, Zingaretti, a destra e a sinistra tutti invitano a continuare a lavorare, a produrre, per la gloria del plusvalore. Ancora a inizio marzo in Val Seriana non ci sono zone rosse, come invece già hanno predisposto nel lodigiano.
La gente continua ad andare a lavorare, torna a casa, si contagia. Muore.
Quando a metà marzo arriva il lockdown per il resto del paese, nelle province di Milano, Bergamo e Brescia si continua ad andare a lavorare.
Secondo la Regione Lombardia ancora settimana scorsa le cellule dei telefonini dicono il 40% dei lombardi (4mln) ancora si muove. Nessuno aggiunge che probabilmente la maggior parte è costretta a farlo per andare a lavorare. Le fabbriche non chiudono, i padroni e i politici spiegano che la locomotiva non si può fermare, bisogna fatturare.
Secondo le stime di Radio Popolare e di Radio Onda d’Urto, che stanno facendo un lavoro egregio sul campo, solo nelle province di Milano, Bergamo e Brescia, fino a sabato scorso circa due milioni di persone continuavano ad andare a lavorare ogni giorno, oltre la metà di loro nelle filiere non essenziali. Quelle che non servono al paese, ma solo al fatturato dei padroni. E in queste stime manca ovviamente il lavoro nero, nell’agricoltura, nei capannoni, nelle costruzioni, nelle piccole fabbriche.
Numeri che diventano atroci, altro che i quarantamila di Atalanta-Valencia del mese prima. Per oltre un mese la gente andava a lavorare, tonava a casa, contagiava. Moriva. Mentre facevano il giro del mondo le immagini delle terapie intensive sovraccariche, dei camion dell’esercito che si muovevano la notte stracolmi di bare e di cadaveri, cominciava a diffondersi la strategia diversiva cui tutti obbedivano. Tanto a questo sistema di valori non c’è alternativa, come ci ha raccontato Mark Fisher.
Cerchiamo il colpevole, il capro espiatorio cui addossare i peccati del mondo. La violenza e il sacro. Oggi è il runner, ieri era l’ultras: l’untore zero. E ancora sabato sera, con l’ultimo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, quello che avrebbe dovuto chiudere le filiere non essenziali, forse, non si sa, aspettiamo qualche giorno.
Le pressioni di Confindustria, dei politici, dei padroni, amplificate dai media: il fatturato della Lombardia è essenziale. Produci, consuma, crepa. Questa volta per colpa del virus. Le aziende restano aperte. Mentre persone come Sala e Gori cominciano timidamente a chiedere scusa, personaggi come Michele Boldrin scrivono sui loro profili frasi come: «L’infezione non sta nelle fabbriche, delinquenti parassiti di merda».
Eccoli, i parassiti, la feccia, la teppa. Eccoli gli ultras. È colpa loro. La responsabilità non è dei padroni, dei politici, dei sindaci, dei governatori, degli amministratori. La responsabilità del disastro immane in cui ci troviamo tutti quanti è di una categoria ben precisa: i tifosi, i quarantamila che il 19 febbraio si sono recati a San Siro per la partita di Champions tra Atalanta e Valencia. Sono loro gli untori.
Ce lo racconta chiunque: giornali, radio, televisioni. Dimenticatevi il Manzoni, il senso comune ha oramai annientato ogni briciolo di buon senso. C’è bisogno di un nemico che non siamo noi, che non rispetta i valori e le idee che noi abbiamo introiettato nel profondo e senza le quali ci sentiremmo persi nel nulla. Il nemico esterno, quello buono per ogni occasione, cui addossare la colpa di ogni nefandezza. Il tifoso.
Dagli all’untore, dagli all’ultras: il nemico perfetto.
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