«La professoressa Weiss attraversava il tempo con determinazione e risolutezza, ma senza entusiasmo. Era un viso di Madonna e di sacerdotessa, angosciato e tormentato, una maschera impenetrabile dalla quale si era indotti a distogliere lo sguardo. Impossibile osservarla a lungo senza sentirsi a disagio».
Vestale e Gorgone a un tempo, custode severa delle regole, chiusa in una totale, raggelata anestesia degli affetti, Elsa Weiss insegna inglese in un liceo israeliano. La sua esistenza è addossata al presente, risolta nel fervido e rituale adempimento della professione, scandita rigidamente nel succedersi quotidiano dei luoghi: la casa, la piscina, la scuola, di nuovo la casa. Una superficie monocolore su cui affiorano, di tanto in tanto, frammenti del passato che la professoressa Weiss, risoluta, ricaccia al fondo, serbandone il segreto nel silenzio ermetico e spigoloso di un mausoleo della memoria. Tutto sembra procedere sui binari della più rigorosa routine finché un giorno, con lo stesso lucido automatismo che governa il suo quotidiano, la professoressa si getta nel vuoto dal suo attico di Tel Aviv.

Questo è l’attacco della storia, raccontato nelle prime pagine con l’icastica brevità di un comunicato: chi parla è un’allieva di Elsa Weiss, a sua volta insegnante di liceo a distanza di una generazione, che ne riannoda i fili dell’esistenza, provando a restituirne un tessuto coeso. Il tentativo risulta nella narrazione di un ante mortem che mostra la difficoltà – evidente nel procedere volutamente rapsodico e annebbiato del discorso – dell’evocazione di un tempo trascorso, che la protagonista ha saputo tenere al riparo da ogni incursione.

Il recente romanzo della scrittrice israeliana Michal Ben-Naftali, L’insegnante, ora disponibile nella bella traduzione italiana di Alessandra Shomroni (Mondadori, pp. 183, euro 19,00) racconta una storia vera, dove autrice e narratrice sono la stessa persona. Una storia che risponde alle lacune e agli angoli ciechi della ricostruzione biografica innestando la finzione sulla realtà. La carenza dei dettagli e l’opacità dei contorni vengono così colmate con la quota finzionale di un racconto che mai rinuncia al principio della verosimiglianza. Seguendo le linee di questa archeologia del vissuto, la narrazione si sposta retrospettivamente a Kolozsvár, in Transilvania, uno dei punti di aggregazione dell’ebraismo romeno dove Elsa, bambina dall’intelligenza prensile e dall’emotività un po’ torbida, trascorre un’infanzia divisa tra obbedienza e primi germi di ribellione, con i genitori, vicini all’ebraismo riformato dei neologi ungheresi, e il fratello, entusiasta dell’idea sionista, che di lì a poco lascerà l’Europa per la Palestina del Mandato britannico. Poi gli studi a Parigi, il matrimonio precoce e tiepido, l’esercito ungherese che entra a Kolozsvár, sotto l’egida della Germania nazista. E ancora l’adeguamento dell’Ungheria alla legislazione antisemita, l’angustia del ghetto, l’illusione di scampare il pericolo. E infine la tentata salvezza: insieme ad altri duemila ebrei ungheresi, Elsa ed Eric saranno inclusi nel convoglio che Rudolf Kastner, pagando Eichmann a peso d’oro, riuscirà a far partire alla volta della Svizzera e che, per errore, finirà a Bergen Belsen, dove i passeggeri vivranno ai confini del lager, spettatori muti della sua crudeltà.

Ultima stazione del racconto è l’esistenza residuale del giorno dopo, gli anni che Elsa vivrà in Israele, sempre più pervasa dall’ossessione della sopravvissuta verso una fine che coincide, in perfetta circolarità, con l’inizio. L’insegnante è un romanzo aspro, a tratti disperato, che descrive la paura e sancisce l’impossibilità del sopravvivere. La sua protagonista è un benjaminiano angelo della storia, ma privato del risalto allegorico della matrice, che fissa le macerie del passato e non sa riconnettere i frantumi. Un romanzo insieme pubblico e privato, piccolo e grande, che incrocia temi decisivi della storia novecentesca – come la questione spinosa e delicata della cooperazione degli ebrei con l’apparato burocratico del nazionalsocialismo – soffermandosi, in parallelo, a descrivere il crepuscolo di un’interiorità che rifiuta la vita perché non riesce più a reggerne l’impatto, con la partecipe sobrietà di chi sa che «non si può imporre a nessuno di amare».