Ulla Lenze, un sogno americano all’ombra del Reich
L'intervista Parla l’autrice di «Le tre vite di Josef Klein», edito da Marsilio. Un emigrato tedesco nella New York degli anni Trenta tra il fascino di Harlem e l’ombra sinistra del nazismo. «Il protagonista si muove dentro una contraddizione: adora il jazz e la società cosmopolita, ma forse collabora con le spie di Hitler»
L'intervista Parla l’autrice di «Le tre vite di Josef Klein», edito da Marsilio. Un emigrato tedesco nella New York degli anni Trenta tra il fascino di Harlem e l’ombra sinistra del nazismo. «Il protagonista si muove dentro una contraddizione: adora il jazz e la società cosmopolita, ma forse collabora con le spie di Hitler»
Per Josef la bassa statura non sembra essere un problema, anzi, certe donne sembrano apprezzarla, insieme al suo sorriso. Un collega di lavoro l’ha definito «il suo “fattore James Cagney”: il sorriso un po’ inclinato a sinistra, un sorriso canaglia da divo del cinema». È arrivato a New York alla fine degli anni Trenta da Düsseldorf al pari di altre migliaia di tedeschi, italiani, irlandesi, polacchi… In una città scossa dal razzismo e dove in molti guardano all’antisemitismo di Hitler come a un possibile modello – non solo il German American Bund che riempie il Madison Square Garden mettendo insieme le svastiche e le immagini di George Washington, ma parte dell’élite wasp del Paese -, lui scopre la cucina italiana e il jazz nelle strade di Harlem, innamorandosene perdutamente.
Ma questa sarà solo una delle molte esistenze dell’immigrato tedesco. Perché il protagonista di Le tre vite di Josef Klein (Marsilio, pp. 280, euro 17, traduzione di Fabio Cremonesi), romanzo che la scrittrice Ulla Lenze ha ispirato almeno in parte ad una storia di famiglia, sarà reclutato dall’intelligence nazista – a suo dire inconsapevolmente – per le sue doti di radioamatore, internato a Ellis Island come spia dopo l’inizio del conflitto e tornato per breve tempo in Germania alla fine degli anni Quaranta, riparerà definitivamente in America latina attraverso la stessa via di fuga seguita dai criminali di guerra. Una vicenda che a metà strada tra il memoir e il romanzo storico racconta tra contraddizioni, zone d’ombra e scoperte una figura equivoca, ma allo stesso tempo testimone di un’epoca incerta che faceva da preludio alla guerra.
Nelle prime pagine del romanzo lei spiega come la storia che ha raccontato si basa in parte sulla biografia di un suo prozio.
Il materiale che è all’origine del libro mi è arrivato tramite mia madre che mi ha consegnato la corrispondenza tra questo mio prozio e mio nonno. Prima di imbattermi in queste lettere non mi sarei neppure mai sognata di scrivere un romanzo storico, qualcosa che una libreria online è arrivata a classificare sotto l’etichetta di «libro d’azione» e «guerra e soldati». Però, visto che le mie precedenti esperienze narrative erano avvenute sempre nel segno della fantasia, ho trovato rassicurante potermi attenere a un quadro di fatti che quei documenti mi aiutavano a ricostruire. Anche perché credo che in fondo in storie del genere sia più facile imbattersi che inventarle. Oltre a quelle fonti e a quanto ho aggiunto di mio, ho studiato molte vicende analoghe registrate nei file dell’Fbi.
Fin dal titolo, il romanzo parla delle tre «vite» del protagonista (l’immigrato, la spia, il fuggiasco). Resta da capire con quanta consapevolezza, opportunismo o badando soprattutto a mettersi al riparo dai guai, lui le abbia attraversate.
Josef è certamente incline a presentarsi come una vittima, a non riconoscere in alcun modo il proprio ruolo in quanto gli accade e le proprie responsabilità. Ciò lo rende nei fatti una sorta di antieroe. Però, allo stesso tempo, è un uomo normale che si misura con la grande Storia e con tutto ciò che questo significa. Da questo punto di vista, è interessante notare come lui venga percepito in modi molto diversi dai lettori, probabilmente perché il romanzo evita di esprimere giudizi troppo netti nei suoi confronti: non volevo né condannarlo né prendere le sue difese, perché si tratta in entrambi i casi di atteggiamenti troppo facili da esprime per noi oggi: non ci costa nulla! Mentre invece la domanda pressante che mi ha accompagnato per tutta la stesura del libro, e che volevo rivolgere a chi lo avrebbe letto, era sempre la stessa: sarebbe potuto succedere a me al suo posto e come mi sarei comportata?
Josef scopre con entusiasmo New York, Harlem e il jazz mentre la sua patria d’origine cerca di riacciuffarlo attraverso degli sgherri che usano per le strade della città divise simili a quelle delle SS. Su di lui pesa il richiamo di un mondo che si vuole «puro» proprio mentre fa l’esperienza quotidiana del cosmopolitismo. Una dimensione parallela non solo storica, ma che lei rende anche attraverso una spiccata chiave narrativa.
Ho scelto di lavorate molto su questo aspetto. L’immagine dei «nazisti davanti ai grattacieli», per le strade di Manhattan, fonde insieme qualcosa di profondamente antagonista: la modernità e la regressione totale. Soprattutto a New York, crogiolo di culture e porta d’accesso al Nuovo Mondo, la simbologia di quelle marce naziste era difficile da battere in termini di fattore disgregativo. Eppure gli Stati Uniti sono rimasti a guardare per un bel po’. Del resto, questo contrasto culturale emergeva già indirettamente nelle lettere del mio prozio: il suo stile era informale, a volte divertente, esprimeva il contesto cosmopolita nel quale si muoveva e perciò lui sembrava non corrispondere in alcun modo allo stereotipo del nazista. Eppure proprio a New York aveva frequentato i nazisti e aveva anche lavorato per loro. Questo ha ovviamente sollevato molte domande tra i parenti, ma è rimasto avvolto dal mistero. Quel che è certo, è che lui si sentiva americano. Sul suo passaporto contraffatto, con il quale in seguito sarebbe fuggito raggiungendo diverse località dell’America latina, aveva scritto che era nato a New York. Quindi non era l’immigrato tedesco imbranato che voleva far credere. Forse in un altro contesto storico sarebbe stato solo un appassionato di jazz che viveva nella Grande Mela felice di farlo.
Prima che Josef sia avvicinato dai nazisti, e che si prepari la guerra, il «Mein kampf» è tra i bestseller del «New York Times» e l’antisemitismo è molto popolare sia tra l’élite che tra i lavoratori americani. In seguito, arrestando tutti i tedeschi (come i giapponesi), e non solo le spie che risiedono nel Paese, gli americani compiranno una sorta di esorcismo verso la loro stessa società?
Comincerò a rispondere da questo aspetto della questione: il racconto pubblico per noi tedeschi è ovviamente che gli americani sono stati i nostri liberatori (un’impostazione con la quale mi scontro perché sembra suggerire che solo Hitler, e non i tedeschi in generale, rappresentassero «il problema»). Perciò, come tedeschi, è difficile discostarci di molto da questa immagine idealizzata dell’America. Solo relativamente di recente, dopo l’11 settembre e l’invasione dell’Iraq, l’immagine generale degli Stati Uniti come un gruppo di «bravi ragazzi» è sembrata cambiare. Quanto all’altro elemento: sì, in effetti oltre undicimila persone di etnia tedesca furono detenute nell’ambito del Programma di controllo degli stranieri nemici messo in campo fin dal 1940, molti di costoro rimasero agli arresti anche dopo la fine della guerra, mentre altri furono espulsi. E si stima che circa l’80% di questi internati non avesse alcun colpa, nessun legame con le spie. Ad oggi, le autorità degli Stati Uniti hanno iniziato a riconoscere quanto accadde allora nei confronti della popolazione di origine giapponese, che fu a sua volta internata, ma non è avvenuto lo stesso per i tedeschi. Tutto ciò senza contare che all’epoca l’America non aumentò la quota di immigrazione proveniente dall’Europa, malgrado l’afflusso di quanti fuggivano dalle persecuzioni, respinse molte navi con le conseguenze immaginabili e ci mise davvero molto tempo ad intervenire nel conflitto. Ma mia madre, che da bambina ricevette arance e cioccolato dai soldati americani, mi prenderebbe alla gola se solo dicessi un’altra parola negativa sugli Stati Uniti.
Lauren, la protagonista femminile del romanzo, rimprovera a Josef che si vanta di aver letto solo quel libro, di non aver capito davvero Thoreau e che quella descritta in «Walden ovvero Vita nei boschi» non è una fuga dalle responsabilità e dalle scelte come lui sembra credere per giustificare il suo individualismo. Si inganna più lei nei confronti di Josef o lui verso il personaggio di Thoreau?
Naturalmente Thoreau rappresenta quella scelta che pare segnata dall’individualismo come base da cui può nascere la forza per la disobbedienza civile. Ed è chiaro come Josef non potrebbe essere più lontano da una simile visione delle cose. Per me questo elemento che ritorna più volte nel libro è servito per sottolineare come spesso capiamo solo ciò che vogliamo capire di ciò che ci circonda. E forse questo vale anche per Lauren, che sembra vedere in Josef solo il povero migrante tedesco travolto da vicende più grandi di lui, lo accoglie nel suo cuore e non considera importanti le differenze che pure esistono, e sono molte, tra loro. Probabilmente quando si è innamorati le cose non possono che andare così.
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