Ulivieri: «Il calcio non può essere solo quello delle tv»
Intervista Per il presidente di Assoallenatori il nodo mai sciolto è la redistribuzione delle risorse: «Altro che nuovi stadi, noi abbiamo bisogno di recuperare le strutture dove praticare lo sport di base. Manca la cultura»
Intervista Per il presidente di Assoallenatori il nodo mai sciolto è la redistribuzione delle risorse: «Altro che nuovi stadi, noi abbiamo bisogno di recuperare le strutture dove praticare lo sport di base. Manca la cultura»
«Tocca ripetermi, anche a costo di usare frasi fatte: il calcio non può essere solo quello delle tv. E chi lo amministra dovrebbe pur farlo qualche ragionamento. Perché a furia di stadi vuoti, come quello di Trieste dove avevano sistemato le sagome degli spettatori per cercare di coprire le tribune deserte, l’intero movimento se ne va in malora». A settantaquattro anni, di cui quaranta passati sulle panchine di squadre di ogni categoria, Renzo Ulivieri conosce bene la materia. E come presidente dell’Assoallenatori non cade dal pero, di fronte alle doppia notizia dell’ennesimo scandalo nelle serie professionistiche minori, e dell’indagine dell’Antitrust sull’ipotesi di un cartello Sky-Mediaset per assicurarsi i diritti televisivi della serie A.
Ulivieri, cerchiamo di uscire dalle rituali parole di condanna. E, come dice lei, facciamo qualche ragionamento.
E allora partiamo dal fatto che, a sinistra, o abbiamo demonizzato il fenomeno, oppure lo abbiamo trattato con troppa sufficienza. In realtà il “calcio spettacolo” che vediamo in televisione è bellissimo, e abbiamo tutti il diritto di goderne. Al tempo stesso abbiamo anche il sacrosanto diritto alla pratica, e quindi ad avere gli spazi di base, anche culturali. Una piramide ha bisogno delle basi, altrimenti crolla. E il calcio di élite, da solo, non regge. Altro che nuovi, grandi stadi, noi abbiamo bisogno di recuperare le strutture dove praticare calcio a tutti i livelli.
Possiamo dire che quello che è successo oggi sia la dimostrazione, su due piani diversi, di un sistema che mostra evidenti patologie?
Sicuramente l’assegnazione all’asta dei diritti televisivi, la scorsa estate, a moltissimi dette l’impressione che dietro le quinte i principali attori si fossero messi d’accordo. Detto questo, il nodo mai sciolto riguarda la mutualità, e cioè la redistribuzione delle risorse. Se finisce la mutualità, finisce tutto il movimento. Ed è nell’interesse di tutti, non immediato ma di sistema, che ci sia una corretta redistribuzione delle risorse. Magari andando a studiare, e applicare, i meccanismi che regolano la mutualità nelle altre nazioni guida del calcio europeo.
Che si sente di dire ai tanti nostalgici, in costante aumento, del “calcio di una volta” da preferire a quello odierno, considerato come un prodotto di plastica ad uso e consumo delle televisioni?
Vorrei ricordare loro che prima il movimento reggeva anche grazie a persone che si sono, letteralmente, rovinate. E su tante situazioni borderline, ai limiti della legalità se non apertamente fuori di essa. Non ci dobbiamo dimenticare delle tante società che andavano avanti grazie agli impliciti accordi fra amministrazioni cittadine e presidente di turno. Magari con la promessa di rendere edificabili i terreni del patròn, a patto che quest’ultimo investisse nella squadra di calcio. Oppure con l’arrivo di sponsor dal dubbio passato. Era giusto che ci dovesse essere un riassetto complessivo, con nuove regole. Anche se questo ha comportato dei problemi, vedi quello che accade ogni anno in Lega Pro. E anche la Lega di serie B ha dei problemi, i suoi bilanci sono in deficit. E allora si torna al punto centrale: se finisce la mutualità, finisce il movimento stesso.
Dal settembre scorso lei è allenatore, a titolo gratuito, della Scalese, squadra di calcio femminile di San Miniato, che fa la serie B.
Ci siamo salvati. E queste ragazze, come la massima parte del mondo dilettantistico maschile, giocano gratis. Ma perlomeno per le strutture questo movimento di base potrebbe essere aiutato.
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