Uliano Lucas, foto «en situation», racconto
«A passo lento nella realtà» Umanista, «jamaicano»; testimone «oculare», prosatore militante, tutto di sintassi: un’antologia per Mimesis
«A passo lento nella realtà» Umanista, «jamaicano»; testimone «oculare», prosatore militante, tutto di sintassi: un’antologia per Mimesis
Erano ancora confinati nel samizdat degli intenditori, i libri di fotografia, quando nel settembre del 1977 uscì Emigranti in Europa rubricato al n. 54 di «Einaudi Letteratura», la collana più sperimentale della casa editrice a cura di Giulio Bollati e di quel Paolo Fossati che vi aveva già editato al n. 31 La fotografia di Ugo Mulas e al n. 50 Un paese vent’anni dopo di Cesare Zavattini e Gianni Berengo Gardin, la ripresa dell’archetipo, quanto alla foto di reportage, condiviso nel ’55 dallo stesso Zavattini con il leggendario Paul Strand.
Ora, Emigranti in Europa portava la firma di un fotogiornalista free lance che tale sarebbe sempre rimasto e presentava in copertina, impaginata nel più rigoroso bianco e nero, la foto scattata davanti alla stazione di Dusseldorf di un giovane padre nordafricano (occhi nerissimi, la barba e la kefiah avvolta intorno al collo) con il suo bambino in braccio. Il libro era opera di un fotografo allora trentacinquenne, il milanese Uliano Lucas, e si avvaleva di alcuni testi esplicativi di Edgardo Pellegrini. Il volume aveva struttura concentrica, ordito intorno alle dinamiche materiali della migrazione, tanto quella interna (Torino, Milano, i Treni del Sole) quanto quella esterna i cui epicentri, isole di un minimo benessere ma pagato a carissimo prezzo, erano Parigi-Saint-Denis, Stoccarda, Londra- East End con le loro affumicate periferie o Charleroi, in Belgio, inferno minerario dove lo stato italiano barattava per legge carbone e corpi umani da fatica.
Le foto di Lucas non potevano che richiamare i maestri della tradizione umanistica (si è detto adesso Strand ma si aggiunga subito Cartier-Bresson e tutti i francesi del realismo poetico anni trenta-quaranta) così come i compagni di via trovati al Bar Jamaica sui Navigli, fra gli altri Mario Dondero, Alfa Castaldi, Carlo Bavagnoli, lo stesso Ugo Mulas, o insomma tutti coloro che Luciano Bianciardi avrebbe immortalato nel romanzo La vita agra (’62) e poi nel racconto I fotografi.
Le foto di Lucas rifiutavano infatti ogni premeditazione, esse coglievano un dettaglio o un totale con la apparente svagatezza del fermo-immagine ma insieme svelavano la etimologica simpatia con i propri referenti che, senza diventare mai demagogica complicità, li rispettava proprio perché sapeva immergersi nel loro ambiente, coglierne i tratti specifici e i gesti di intesa, intenderne l’acustica del tutto esotica. Insomma, quelle foto di cinquant’anni fa, se ricondotte al presente, si rivelano dei veri e propri gesti di premonizione, anticipi di quanto, davanti ai nostri occhi, ora si dispiega con la normalità del senso comune.
Non avrebbe mai cambiato né la postura né la natura di libero globetrotter o la poetica di fotografo umanista, Uliano Lucas, come testimonia da ultimo A passo lento nella realtà (Mimesis, pp. 304, € 28,00), un volume che ne riprende in antologica foto e testi a cura di Tatiana Agliani (una studiosa cui si deve fra l’altro la bella monografia Jamaica. Arte e vita nel cuore di Brera, Rizzoli 2012). Condizione obbligatoria dello sguardo di Lucas è la sua non-neutralità che in esero definisce in questi termini: «Dietro l’obiettivo c’è sempre un punto di vista, una scelta, un’interpretazione più o meno netta del mondo». Si potrebbe aggiungere che Lucas sceglie chi sta sotto nell’ordine sociale, per esempio gli operai del mondo industrializzato e i braccianti del cosiddetto terzo mondo, ovvero chi ne rimane fuori, gli esclusi per la discriminante sociale-razziale e in primis i migranti.
Da sempre attivo su testate storiche del campo progressista (da «Il Mondo» a «L’Illustrazione Italiana», da l’Unità e la Repubblica a il manifesto, non esclusi fogli stranieri come «Jeune Afrique»), la sua lezione è ripresa dai maggiori fotografi sociali della generazione successiva (e basti pensare a Tano D’Amico o a Danilo De Marco) a partire dalla foto maggiormente celebrata di Lucas, il sottinsù panottico che ritrae nel 1968 un emigrante sardo, con la valigia di cartone, appena uscito dalla stazione centrale di Milano, solo e disorientato, persino schiacciato dall’imponenza del grattacielo Pirelli che si erge alla sue spalle. La foto è il simbolo del Boom economico e delle sue stridenti contraddizioni, è un frutto del lento pedinamento (la metafora appartiene allo Zavattini neorealista e Lucas la fa propria) che negli anni ha portato il fotografo non soltanto in Europa, immerso nella «legione straniera del lavoro», ma in Guinea e Portogallo durante la Rivoluzione dei Garofani, nella Sarajevo sotto assedio negli anni novanta, in Cina al tempo della deviazione neocapitalista guidata da Den Xiaoping.
Un altro motto di Lucas è, infatti, «andare, venire, sentire ritornare», come nei casi di un’Italia silenziosamente deragliata, a Seveso nel ’76 (spettro profetico della catastrofe ecologica) oppure in Sardegna dove scorge presto i sintomi di una inquietante mutazione: «Negli anni dei miei viaggi la realtà era profondamente mutata, si era compiuta anche in Sardegna quella trasformazione antropologica dell’Italia descritta con acutezza ma forse con troppa brama di nostalgia da Pier Paolo Pasolini». E tuttavia nel caso di Lucas la ricerca di una foto emblematica, esaustiva di una situazione, può essere persino fuorviante. Non solo perché Lucas non mira alla «bella foto» ma perché la fotografia en situation non può che essere per lui il racconto fotografico.
Ciò vuole dire anche che Lucas non guarda al lessico ma alla sintassi fotografica, e questo lo accomuna paradossalmente al maggiore fuoriclasse secolare, Mario Giacomelli, il quale escludeva le foto che sembrassero «artistiche» o troppo compiute perché le vedeva esorbitanti, eccessive rispetto ai propri cicli narrativi: solo che Giacomelli era un poeta, un grande poeta, che inventava la realtà, la sua realtà, come un Fellini della fotografia, mentre Lucas è un prosatore che sceglie per sé la parte del testimone oculare e del militante. Nemmeno è un caso che Lucas abbia sempre badato molto all’impaginazione delle sue immagini avendo piena coscienza della natura industriale dei media e delle dinamiche che Adorno definisce proprie delle società amministrate: oggi che le immagini viaggiano nella galassia digitale, per lo più in sequenze standardizzate e preconfezionate, mentre gli stessi fotografi sono lontani o espulsi dal lavoro redazionale, egli dice di rimpiangere certi grafici di alto artigianato come, a il manifesto, Nora Parcu, che in effetti sceglie le immagini con sensibilità immediata.
Va aggiunto che Lucas, pur disponendo in maniera sovrana della tecnica fotografica, non ne ha il feticismo e preferisce utilizzare pellicole da 35 mm. con obiettivi grandangolari aprendo il suo bianco e nero alla luce naturale e ai forti contrasti. In A passo lento nella realtà ricorda a un certo punto con evidente commozione la figura di suo padre, nel dopoguerra produttore di film neorealisti, che gli regalò a suo tempo la Rolleiflex inziatica con cui scendere in strada perché, osserva il maestro, «la stradale allena l’occhio, ti spinge a osservare». E a scegliere, a prendere parte e, probabilmente, a sottoscrivere il pensiero di Jean-Luc Godard secondo cui la lotta di classe passa anche per un’immagine schierata contro un’altra immagine.
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