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Ulf Danielsson, si può rendere oggettivo ciò che è soggettivo?

Ulf Danielsson, si può rendere oggettivo ciò che è soggettivo?Sean Scully, «Human Nature», 1996

Eterne questioni Con un obiettivo ambizioso, il fisico teorico svedese ci invita a rivolgerci al nostro «interno», per scoprire «qualcosa» che non ha nulla a che vedere con la materia e con il calcolo: «Il mondo in sé», da Einaudi

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 14 gennaio 2024

Eravamo convinti – dalla fine del diciottesimo secolo – che delle cose in sé, per come esse sono davvero (a prescindere da ogni possibile esperienza), non si possa parlare, se non come «concetti-limite». Sarebbe infatti un’assurdità – ammoniva nel 1783 Immanuel Kant – sperare di conoscere qualcosa che (per definizione) non è oggetto di alcuna esperienza possibile. Di più: in quello stesso contesto, Kant invitava a non occuparsi di questioni ai suoi occhi insolubili. Tra queste, l’idea stessa di «mondo», inteso come totalità dei fenomeni che si manifestano alla nostra sensibilità; e il problema dell’io, inteso come quella particolare coscienza che accompagna il pensiero e che dunque – a detta di Kant – non è un concetto, ma soltanto un soggetto.

Grande è dunque la curiosità destata dal libro di Ulf Danielsson, fisico teorico svedese che svolge le funzioni di segretario del Comitato per la Fisica per la selezione dei Nobel che – già dal titolo – sembra sfidare i limiti posti al pensiero dal paradigma moderno: Il mondo in sé La coscienza e il tutto nella fisica (traduzione di Daniele A. Gewurz, Einaudi, pp. 159, € 19,00). L’obiettivo fissato è ambizioso: ricondurre alla fisica lo studio di tutti gli aspetti del mondo, compresi quelli che riguardano la vita organica e la coscienza. Però, la fisica attuale – a parere di Danielsson – è troppo semplice; sebbene sia in grado di fornire modelli accurati per molti aspetti del mondo, non è ancora in grado di dare lumi sulla vita e sulla coscienza. Nella cultura scientifica contemporanea si sarebbero andate consolidando alcune concezioni fuorvianti, che si frappongono alla comprensione della materia vivente e dell’esperienza soggettiva cosciente. Per esempio: la confusione tra i modelli matematici e il mondo fisico; l’idea che il reale sia semplice; l’idea che l’universo sia costituito da pura informazione; l’idea che sia possibile tracciare un confine netto tra il mondo inanimato e quello vivente; l’idea che il «segreto» della vita risieda nel codice genetico (a prescindere dal sistema cellulare che è in grado di leggere, interpretare il codice, e di realizzarlo); l’idea che gli enti matematici abbiano un’esistenza oggettiva (e non siano invece meri costrutti); l’idea che si diano «leggi» della natura, piuttosto che modelli costruiti dagli esseri umani, per comprendere aspetti del mondo; l’idea, infine, che i nostri modelli del mondo siano auto-espressivi di ciò che denotano, ovvero l’idea che quei modelli siano in grado di determinare da soli la propria interpretazione, a prescindere dai corpi fisici e dalle menti di chi li hanno costruiti e li utilizzano.

Un terreno specifico per misurare la differenza che corre tra la materia inerte e quella vivente (o tra le procedure meccaniche e i processi coscienti) è quello degli elaboratori elettronici. Posto che le performance più «creative» dei computer attuali (come la generazione di testi, o il gioco degli scacchi e del go) rinviano a processi fisici dai noi conosciuti perfettamente, Danielsson ci invita a rivolgere l’attenzione al nostro «interno», per scoprire «qualcosa che non ha nulla a vedere» (apparentemente) con la materia e col calcolo: quella che, sulla scorta di una tradizione secolare, l’autore chiama «la presenza soggettiva interiore». Con argomenti che ripercorrono una letteratura sterminata, Danielsson esclude l’idea che 1) la coscienza sia legata a qualcosa di immateriale, 2) sia un fenomeno emergente da processi che già saremmo in grado di comprendere, 3) sia una mera illusione, 4) sia il risultato di una simulazione.

Si giunge così alla parte propositiva del libro, che è ricca di spunti; ma – alla fine dei conti – parecchio sotto-dimensionata, rispetto alle ambizioni del libro. Danielsson parte infatti da un richiamo alle tesi sulla «vita in sé», elaborate negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso dal biofisico Robert Rosen. Passa quindi a una riconsiderazione delle cause finali aristoteliche e alla teoria dei sistemi autopoietici elaborata da Humberto Maturana e Francisco Varela nel 1980. Adombra poi il sospetto che la fisica dei sistemi viventi possa essere – per sua natura – non calcolabile. Suggerisce che i livelli più complessi di organizzazione della materia potrebbero non avere alcun rapporto con quelli inferiori. Richiama infine alcuni risultati della termodinamica dei sistemi aperti, per concludere che – forse – cosa sia il «mondo in sé» (o la vita, o la coscienza) non lo sapremo mai. Nemmeno un cenno, però, al fatto che una scienza dura della coscienza vanta almeno trent’anni: era il 1990, infatti, quando Francis Crick e Christof Koch presentarono il primo programma di ricerca sulla neurobiologia della coscienza. Da allora, il panorama teorico degli studi in questo campo è considerevolmente fiorito.

Certamente, ci si interroga ancora sulla possibilità che resoconti oggettivi, in terza persona (come sono quelli scientifici) possano dare conto di fenomeni soggettivi, in prima persona (qual è la coscienza). Ma sul fatto che i risultati dei nostri studi possano essere soltanto modelli (e non una ripresentazione esatta delle cose-in-sé) forse anche Danielsson sarebbe alla fine d’accordo.

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