Ulay, il corpo radicale
Arte in lutto Addio al pioniere della performance. Insieme a Marina Abramovic esplorò i confini dell'identità e delle relazioni umane
Arte in lutto Addio al pioniere della performance. Insieme a Marina Abramovic esplorò i confini dell'identità e delle relazioni umane
Frank Uwe Laysiepen (Solingen, in Germania, 1943), famoso come Ulay, fotografo e performer nonché docente all’università di Karlsruhe, è stato il pioniere indiscusso della performance art, disciplina avanguardistica degli anni Settanta a cui ha dedicato l’intensità e la volitività della sua conflittuale anima. Si è spento ieri a Lubiana, città dove viveva da anni e dove curava il suo male.
IL PARADIGMA IDENTITARIO è il nodo concettuale che connota la sua complicata biografia e la annoda alla sua ricerca sperimentale. Solo dall’insanabile dualità tra gli strati consci e inconsci è possibile percepire la portata delle sue azioni. Ulay viveva quel senso di colpa (molto diffuso nella generazione tedesca del post-totalitarismo) che si era diffuso in chi, come lui, aveva vissuto il rigetto dell’autorità paterna (essendo stato il suo un gerarca nazista), soffrendo l’inadeguatezza della spaccatura della Germania, e in chi, di natura libertaria, dissentiva dalla «banalità del male».
Questa scissione intima e dolorosa lo pervadeva e divorava tanto da rifiutare per sempre il suo cognome e lasciare la Germania per Amsterdam, dove insieme ai galleristi Wies Smals e Mia Visser, fondò la De Appel Foundation.
Tracciando à rebours le sue radicali opere, si comprende quanto le pratiche del corpo, la liquidità del gender, la declinazione di una identità in «transito», si aggroviglino tra loro in una coscienza non pacificata con il proprio Sé e quanto l’arte dimorasse nella sua vita psichica come proiezione ed elaborazione del «danno» originale.
È NEL 1974 che un bellissimo e azzardato Ulay presenta la irriverente mostra Renais Sense (tra l’altro riproposta dalla Boers-Li Gallery di New York, nel 2018) in cui attraverso l’utilizzo della polaroid e del travestimento, analizzava il concetto di limine, attraverso l’androginia, come deterritorializzazione del genere. È lo stesso anno in cui al Kunstmuseum di Lucerna viene realizzata la epocale e trasgressiva mostra Transformer: Aspect of Travesty.
In Renais Sense, Ulay individuava nello scardinamento degli stereotipi quel processo di costruzione di identità multiple. Truccato e abbigliato eccentricamente da donna, segnalava ciò che definiva «quella sensibilità femminile che fa parte della mia anima», perseguendo il suo assioma: «L’estetica senza etica è cosmetica».
Nel 1976, Ulay realizzò alla De Appel la serie di performance Fototot, attraverso un procedimento di partecipazione dello spettatore che si concedeva all’obiettivo e poi veniva ibridato con le foto di Ulay stesso, sconfinando nel limine di una dimensione corporea volatile e cancellando l’inviolabilità della identità fissa.
There is a Criminal Touch to Art, nel 1976, è la performance realizzata alla Neue Nationalgalerie di Berlino: Ulay rubava il dipinto ottocentesco Der arme Poet del pittore romantico Carl Spitzweg (ammirato dalla ricca borghesia e da Adolf Hitler) e lo portava in casa di una famiglia di immigrati turchi nel quartiere di Kreuzberg, spostando l’attenzione sull’alterità e sulle minoranze etniche.
IL SEGUITO è di dominio pubblico. Ulay conosce Marina Abramovic. Con lei vivrà un art-love affair per dodici anni: insieme, scriveranno la storia della Performance art. La simbiosi e l’empatia fra i due è folgorante: fa scattare quella corrispondenza tra maschile e femminile, irradia l’energia intellettiva tra le due menti, infiamma l’attrazione amorosa che li avviluppa.
Questa contaminazione ha generato le memorabili performance: Relation in Time, 1977, Relation in Space, 1976, Breathing In Breathing Out (With Ulay), 1978, Rest Energy, 1980, Imponderabilia, 1977, Modus Vivendi fino a The Lovers: The Great Wall Walk del 1988 che chiude la parentesi amorosa e inizia la loro separazione.
La performance viene realizzata sulla Muraglia cinese che è percorsa in circa novanta giorni, partendo ognuno dagli estremi opposti e convergendo al centro, per darsi l’addio. Nel 2013, dopo un lungo e meticoloso recupero di materiali footage e di archivio, esce il documentario Project Cancer, diretto da Damjan Kozole, girato sulla vita inquieta e acuta dell’indimenticabile Ulay.
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