Nel palmo della mano grande di Alexander Calder c’è un piccolo bipede alato: il filo di metallo ne forgia l’identità di cui, nello scatto fotografico, viene sottolineata la fragilità ma anche la natura «leggera». Ugo Mulas (Pozzolengo 1928-Milano 1973) ha più volte fotografato il grande artista statunitense e le sue mani, sia nell’atelier di Sachè, nella valle dell’Indre e Loira in Francia (come in questo caso: la foto della serie Circus Calder è del 1963) che a Roxbury in Connecticut.

Un sodalizio particolarmente stimolante, quello tra i due, all’insegna della stima reciproca e dell’amicizia, tanto da portare alla pubblicazione del libro Calder (1971) con le fotografie di Mulas, l’introduzione di H. Harvard Arnason e i commenti dello stesso scultore. Quello dedicato ad Alexander Calder, tra l’altro, è tra i nuclei fotografici più consistenti dell’Archivio Mulas. Da qui provengono anche le immagini della sezione che prende il nome dell’artista per Ugo Mulas. L’operazione fotografica, mostra inaugurale de «Le Stanze della Fotografia» all’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia (fino al 6 agosto), nata in collaborazione con l’archivio del fotografo e curata da Denis Curti, direttore artistico del nuovo spazio e Alberto Salvadori, direttore dell’Archivio Mulas. «Per lui volevo fare qualcosa di molto bello, volevo delle fotografie che fossero significative del suo atteggiamento – dell’aspetto giocoso della sua opera – e poi fotografie affettuose, con la moglie, con le figlie coi nipoti, nella casa americana, a Roxbury, in quella sull’Indre, a Sachè, insomma foto da album ricordo – scrive il fotografo nel volume Ugo Mulas, La Fotografia (curato da Paolo Fossati e pubblicato nel 1973) – Dalle foto non doveva trasparire altra intenzione che quella di dichiarare il mio amore per la sua opera e la gioia che mi dava la sua amicizia. Un omaggio totale cercando di cogliere anche l’aspetto fisico, da patriarca un po’ ironico, un po’ burlone. Mi piaceva il fatto che si dedicava a tutto con uguale intensità, che riuscisse a costruire dei forchettoni o dei mestoli per la cucina non meno belli delle sue sculture (…) l’impegno e l’abilità con cui si muove per realizzare delle teste o delle figure con un solo filo di ferro, senza mai tagliarlo (…) oppure le gouaches fatte senza pennelli, giocando sul movimento e l’inclinazione del foglio (…)».

Mezzo secolo è trascorso dalla scomparsa di Ugo Mulas, le cui immagini fotografiche – unicamente in bianco e nero – riflettono perfettamente il suo spirito attento, rispettoso e anche interpretativo. «Generoso, inclusivo, sperimentatore, incoraggiante verso tutti. Fintamente perplesso, ma solo per lasciare spazio a nuovi sentimenti. Geniale. Curioso e severo, soprattutto bello, e non solo perché circondato da tanta bellezza», come lo definisce Denis Curti. Un fotografo che si è cimentato con le diverse categorie convenzionali – dal teatro alla moda, dal nudo al gioiello, dal ritratto al reportage – collaborando con testate come L’Illustrazione Italiana, Du, Vogue, ma soprattutto ha saputo osservare con uno sguardo sempre rinnovato e partecipe i movimenti artistici, ritraendone i protagonisti negli studi, nelle gallerie, nei loft dei collezionisti, nonché in occasione delle edizioni della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia: Fontana, Duchamp, Louise Nevelson, Lichtenstein, Warhol, Noland, Giacometti, John Cage, Jasper Johns, David Smith, Max Ernst ed altri ancora. È proprio alla Biennale di Venezia del ’64 che Mulas e Alan Solomon si conoscono: sarà l’allora direttore del Jewish Museum di New York a sponsorizzare, insieme al gallerista Leo Castelli, il volume New York: arte e persone (1967) in cui, come scrive Solomon nell’introduzione, «vi sono molte cose sotto la superficie di queste fotografie, e riguardano l’atmosfera dello studio, gli atteggiamenti mentali e le abitudini di lavoro degli artisti, la loro personalità, il tutto registrato secondo quella che mi pare una fedeltà senza pari».

La mostra Ugo Mulas. L’operazione fotografica nell’offrire una puntuale rilettura dell’opera dell’autore, segna anche un nuovo capitolo dell’avventura di Marsilio Arte che vede in questo nuovo centro internazionale espositivo e di ricerca per la valorizzazione della fotografia – un’iniziativa congiunta con la Fondazione Giorgio Cini – l’ideale prosecuzione dell’esperienza decennale della Casa dei Tre Oci dopo la sua vendita al magnate Nicolas Berggruen.

Nelle sale dell’ex convitto, in un’ala della Fondazione Cini, restaurate e riallestite dallo Studio di Architetti Pedron/La Tegola con pareti leggere e movibili che ricordano le quinte teatrali e conferiscono allo spazio un assetto dinamico, sono 296 le foto esposte, tra vintage e stampe moderne (di cui 30 mostrate per la prima volta) e vari documenti, libri e filmati. L’incipit di questi 14 «capitoli tematici» che costituiscono la mostra stessa (accompagnata dal catalogo di oltre trecento pagine edito da Marsilio Arte) è affidato dai curatori a Le verifiche (1968-72), di cui è proprio la n. 2 – L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander (1971) – è stata ispiratrice del titolo dell’esposizione. «Qualche tempo dopo l’Omaggio a Niépce ho voluto verificare un altro aspetto della realtà della fotografia: la macchina – scrive Mulas – Contro la finestra c’è uno specchio, il sole batte sulla finestra, ne proietta l’ombra di un montante contro la parete e insieme proietta la mia ombra. Da questa ombra si vede che sto fotografando, e la mia azione appare anche nello specchio. In ambedue i casi c’è un elemento comune: la macchina cancella il viso del fotografo, perché è all’altezza dell’occhio e nasconde i tratti del volto. La verifica è dedicata a quello che io credo sia il fotografo che più ha sentito questo problema, e ha tentato di superare la barriera che è costituita dalla macchina, cioè il mezzo stesso del suo lavoro e del suo modo di conoscere e di fare. Forse, qui come nel successivo autoritratto con Nini, c’è l’ossessione di essere presente, di vedermi mentre vedo, di partecipare, coinvolgendomi. O, meglio, è una consapevolezza che la macchina non mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si può sopravvalutare né sottovalutare la portata, ma proprio per questo un mezzo che mi esclude mentre più sono presente».