La certezza di ottenere nel Parlamento europeo i 361 voti necessari per restare presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen non ce l’ha e non ce l’avrà sino all’ultimo, con o senza l’appoggio di Giorgia Meloni. Quella di essere lei la candidata indicata tra giovedì e venerdì prossimi dai capi di governo di almeno 15 Paesi Ue su 27, abbastanza popolosi da rappresentare il 65% dei cittadini europei, invece, è quasi garantita. Ieri von der Leyen, il presidente del Ppe Manfred Weber e Roberta Metsola, candidata a restare presidente del Parlamento europeo per almeno altri due anni e mezzo, si sono incontrati nell’assemblea politica del Partito popolare europeo a Strasburgo e alla fine del conciliabolo Weber ha affidato ai social l’annuncio che i popolari non arretrano di un passo sulle candidature: «Forte unità e ottimo scambio con von der Leyen e Metsola. La vittoria elettorale, guidata dai nostri contenuti e da personalità convincenti, ci conferisce un mandato forte». Messaggio tanto esplicito che non lo si può neppure definire in codice.

«SOCIALISTI E LIBERALI non possono avere più di quanto hanno ottenuto nelle urne», aveva già specificato qualche ora prima Antonio Tajani, che per l’occasione indossa le vesti del duro. È lui a ricordare che i socialisti (come il cancelliere tedesco Olaf Scholz) e i liberali (come il presidente francese Emmanuel Macron) non hanno i numeri per alzare troppo la testa. Che se non si arriverà all’accordo il 27 e 28 giugno «servirà altro tempo», cioè quel che la grande maggioranza dei governi europei vuole evitare perché teme il terremoto post elezioni francesi e che invece al governo italiano, per lo stesso motivo, non dispiacerebbe. Che la presidenza del Consiglio europeo spetta al Pse, e decidessero loro se affidarla al portoghese António Costa o a Enrico Letta, «ma con l’alternanza» cioè solo per due anni e mezzo. Che i Verdi «non possono stare nella nuova maggioranza perché gli elettori hanno detto no a un ambientalismo fondamentalista»: un passaggio che, se condiviso da tutto il Ppe, renderebbe inevitabile il ricorso a una parte di Ecr, in soldoni al partito di Giorgia Meloni, come stampella anti franchi tiratori nel voto di Strasburgo.

RESTA DA CHIARIRE se Tajani parla a nome del Ppe o come vicepremier del governo parte in causa, quello italiano che Macron e Scholz, in nome della diga antifascista, hanno invece cercato di mettere all’angolo esattamente una settimana fa. A palazzo Chigi sono convinti che la posizione maggioritaria nel Ppe sia quella illustrata da Tajani e non quella del premier polacco Donald Tusk, che la settimana scorsa ha fatto da sponda alla linea intransigente del francese e del tedesco. Le parole pronunciate domenica da Weber confermano questa opinione. Fra le tre priorità della Ue nei prossimi anni, oltre alla pace e alla crescita, ha inserito «la limitazione all’immigrazione», declinata in «chiaro impegno nella lotta all’immigrazione illegale, rafforzamento della protezione delle frontiere esterne e nuovo patto per il Mediterraneo». Musica per le orecchie di Giorgia Meloni che infatti, se la linea fosse davvero questa, sarebbe pronta a votare per von der Leyen e a indicare come commissario e vicepremier Raffaele Fitto.

Il periodo ipotetico è d’obbligo: le incognite permangono e non saranno risolte fino alla riunione del Consiglio. Una è rappresentata dalla posizione di Macron e Scholz, che non è affatto detto siano pronti alla resa e all’abbandono della pregiudiziale anti Ecr, cioè anti Giorgia Meloni.

L’ALTRA IPOTECA, anche più gravosa, è il dissenso del Ppe sulle candidature per la presidenza del Consiglio europeo e l’Alto commissariato agli esteri. Quando Weber sottolinea che tutti «i futuri leader della Ue devono incarnare queste tre priorità» allude direttamente al portoghese Costa, indicato dal Pse per il Consiglio. Tajani è anche più chiaro. Sottolinea che il presidente non dovrà avere «posizioni sull’immigrazione non rispondenti alla posizione della maggioranza degli europei» e già che ci si trova lancia una frecciata anche contro la candidata liberale agli Esteri, la premier estone Kaja Kallas. L’Alta commissaria «dovrà guardare anche al sud», dice e allude allo scarso interesse dell’estone per quel confine. Meloni, insomma, ha il grosso del Ppe dalla sua ma tutto è ancora da decidersi.