Ventuno eventi tra concerti, laboratori, proiezioni e incontri in otto diversi spazi della città di Udine. Questi in sintesi i numeri della trentaquattresima edizione di Udin&Jazz, il più longevo dei festival friulani dedicato alle note blu.

L’APERTURA è stata dedicata alla attualità politica con un pomeriggio a sostegno di Medici Senza Frontiere impegnati a Gaza; sul prato del Parco Moretti diverse formazioni come il robusto e visionario duo Peace in Space di Flavio Zanuttini, alla tromba e gong e Zlatko Kaucic alle percussioni, il duo Claudio Cojaniz e Alessandro Turchet e il quartetto di Bruno Romani.
Due bei tributi ad altrettanti grandi musicisti del passato hanno rinsaldato la memoria storica. Il primo è stato My Name is Nina, spettacolo e libro, pubblicato da Kappa Vu Edizioni, dedicato alla vita e alla musica di Nina Simone, a cura dello scrittore Valerio Marchi, anche in veste di narratore sul palco e la cantante Graziella Vendramin, accompagnati dai solidi Alessandro Scolz, Romano Todesco e Emanuel Donadelli. La Simone dei grandi successi come My Baby Just Cares for Me ma soprattutto quella militante e combattiva. Spettacolo artisticamente e politicamente prezioso.
Altro tributo è stato invece quello alla eredità del pianista McCoy Tyner, celebre in particolare per la sua partecipazione al leggendario quartetto coltraniano e qui ricordato giustamente per le sue doti compositive da una formazione di stelle guidate dal contrabbassista Avery Sharpe, per un ventennio a fianco del pianista: Antonio Faraò, Ronnie Burrage, Steve Turre e Chico Freeman.

TRA IL CINETICO Fly with the Wind e il bollente African Village è stato un concerto memorabile che i musicisti hanno suonato con evidente gioia e partecipazione, tra virtuosismo – come non rimanere colpiti dalle conchiglie di Turre – e adesione ad un jazz caldo e fluente. Davvero impressionante per qualità, gusto e ispirazione il concerto del trio The Jazz Bins del chitarrista Marc Ribot con Greg Lewis all’organo Hammond e il giovane Joe Dyson alla batteria. Del chitarrista è nota la propensione postmoderna e la facilità con la quale sa attraversare territori sonori più disparati. Non stupisce perciò che un progetto dichiaratamente ispirato alla stagione dell’organ trio finisca per inglobare il funk di James Brown di Ain’t it Funky come il jazz di uno standard come April in Paris. Ribot è asciutto e antiretorico, sa evocare Wes Montgomery e un attimo dopo grattuggiare le corde come sul palco di un club punk-rock. Tra un buon vecchio boogie e la ossessiva e minimalista Times Square di Ornette Coleman, Marc Ribot si conferma uno dei più interessanti in circolazione.

Tra i concerti che hanno visto illuminare la spianata del piazzale del Castello, graziati da un clima tropicale in luogo dei tradizionali temporali udinesi, oltre alla performance ambient-elettronica della sorprendente Daniela Pes ci ha particolarmente colpito l’esibizione di Fantastic Negrito, al secolo Xavier Amin Dphrepaulezz, compositore, cantante e chitarrista californiano che ha suonato brani dal suo disco capolavoro White Jesus Black Problems, il classico folk In the Pines e anticipazioni dal nuovo lavoro in uscita a settembre. Moderna incarnazione del performer afroamericano istrionico che mescola sapientemente il gusto dello stregonesco, del magniloquente, del clownesco, Fantastic Negrito è un Cab Calloway del nuovo millennio tra Hi-De-Ho e Hoo Doo, un officiante del Vaudeville nero, dove tutto è cominciato e dove tutto è destinato a ritornare. Ai fortunati ascoltatori non resta che alzarsi in piedi e ballare condotti dal musicista in pantaloni a righe e cappello a tesa larga alla luce della luna.