Per essere una situazione da tempo «governata» da una specie di trattato di pace, chiamato da tutti «Minsk 2», l’Ucraina non pare essere un esempio perfetto di accordo riuscito.

Quella in corso è ormai una guerra a bassa intensità e come tale è costante nel tempo, vive di sprazzi di fuoco e colpi d’artiglieria, imboscate e omicidi sospetti, regolamenti di conti e piccoli balzi in avanti. Benché l’attenzione mediatica si sia spostata su altre aree del mondo (Grecia e Medio oriente) quanto accade in Ucraina non pare essere diverso da un anno fa. Il paese, la parte occidentale, è in bancarotta ma è nelle mani di Fmi e Unione europea, nonché dei businessmen americani, che stanno cercando di fare di tutto per tenerla in piedi. Kiev continua ad essere gestita dal clan Poroshenko, insieme a quello rappresentato dal suo governo.

Le ultime decisioni della capitale sono state convocare, pare, un gabinetto di guerra d’emergenza e abolire le tasse per i veterani di guerra ed esentare le vittime del conflitto in corso dal pagamento di imposte.

Nel frattempo si discute del piano presentato per la ristrutturazione del debito, nel tentativo di evitare la bancarotta completa. Non ci sono ancora importanti novità, ma il ministero dell’economia di Kiev si è detto, ancora ieri, fiducioso, benché sappia di giocare sul filo di lana. Sempre nel fronte occidentale i nodi sono giunti al pettine, circa la natura di parecchie forze che hanno fatto la parte del leone nella guerra con le regioni separatiste.

I neonazisti di Settore Destro sono arrivati addirittura a scontrarsi con la polizia governativa, mentre nelle file del Battaglione Azov, uno dei più noti e crudeli (condannato anche da Amnesty) almeno due comandanti, non particolarmente conosciuti alle cronache occidentali, avrebbero deciso di concludere la propria vita con il suicidio. Uno dei due, solo una decina di giorni fa, sarebbe stato trovato impiccato.

Sul fronte orientale, la situazione non può certo dirsi migliore. Guerra di bassa intensità, o frozen conflict: si tratta di termini utilizzati per descrivere situazioni dalle connotazioni militari in evoluzione, in modo sommerso e poco visibile, su cui pesa la geopolitica. In pratica significa che si continua a sparare, in una guerra di posizioni difese e conquistate palmo a palmo, strisciando piano piano sul terreno e rischiandoci di rimanerci esangui. Le persone continuano a morire e non solo negli scontri tra nemici.

Nei giorni scorsi sono morti sia ribelli (secondo il New York Times sarebbe in corso anche uno scontro fratricida tra separatisti di Lugansk e i cosacchi, che in precedenza controllavano una zona piuttosto vasta del territorio), sia soldati ucraini, a testimoniare che Minsk2 è una chimera, sollevata di fronte all’opinione pubblica solo da chi aveva convenienza – in quel momento – a presentarsi come il risolutore di una crisi che in realtà, finché non verranno prese misure amministrative chiare, appare irrisolvibile.

I personaggi in questione sono Hollande, Merkel, Poroshenko e Putin. Questi ultimi due, ben sapendo molto più degli altri che la situazione non era certa in procinto di risolversi, hanno convenuto che per motivi diversi era meglio si concludesse, lì per lì, con soli buoni auspici.

E ieri il Cremlino ha contestato la denuncia dell’Osce, secondo cui un miliziano di guardia davanti ad un deposito di armi controllato dalle forze ribelli nella regione del Donetsk «aveva dichiarato di essere, così come le altre persone presenti nello stesso sito, membro della 16ma brigata aviotrasportata di Orenburg, in Russia». «La cosa più importante è capire di cosa si parli, perché sappiamo quante volte vi siano state accuse a questo proposito provenienti da varie fonti ufficiali e ogni volta si sono risolte con nulla di concreto» ha dichiarato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov.