Internazionale

Ucciso Tamin, «stragista di Dhaka»

Ucciso Tamin, «stragista di Dhaka»Polizia nel luogo dove è stato ucciso il presunto ideatore della strage di Dhaka – Lapresse

Bangladesh Per il governo è stato l’ideatore dell’attacco del primo luglio al ristorante per expat

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 28 agosto 2016

La polizia del Bangladesh ne è certa. Anzi, certissima: quel corpo riversato a terra accanto ad altri due distesi in un lago di sangue nella palazzina a due piani della cittadina di Narayanganj, 25 chilometri a Sud della capitale Dhaka, è quello di Tamim Chowdhury. Con la sua morte, e quella di due suoi sodali, il Bangladesh chiude almeno in parte lo spinoso capitolo della strage che agli inizi di luglio ha visto uccidere un gruppo di 22 ostaggi – tra cui nove italiani – in un bar esclusivo della capitale frequentato da «expat».

L’azione era stata rivendicata da Daesh e Tamin ne sarebbe stato l’ideatore. Tamin è però anche leader di una fazione del gruppo Jamaat-ul-Mujahideen Bangladesh (Jmb), gruppo jihadista del Paese asiatico, che il governo aveva indicato subito come l’autore dell’attentato negando fosse opera di Daesh. La morte di Tamin non potrà smentirlo o confermarlo. Stando alle fonti di polizia, l’azione è iniziata al mattino presto, all’alba, quando la palazzina coi tre sospetti è stata circondata. Per un quarto d’ora (!), dice sempre la polizia, si intima la resa ma non arrivano risposte: i militanti invece avrebbero dato fuoco a una stanza con l’intento forse di distruggere prove, documenti, laptop. Alle 8 e 45 scatta l’operativo e benché ora la polizia dica che avrebbe voluto Tamin vivo, i tre vengono falciati.

Del resto sono armati di mitra e machete e forse non si vogliono arrendere ma la resistenza comunque dev’essere durata poco. Passa qualche ora e giornali e rete vengono inondati di fotografie dei tre cadaveri il cui capo sarebbe stato l’uomo che progettò la strage del 1 luglio al Holey Artisan Bakery a Gulshan, quartiere residenziale di alto bordo a Dhaka. Su Tamin, un bangla canadese tornato a Dhaka nel 2013 e presto indicato tra i sospetti, vien messa una taglia di 22mila euro e per gli inquirenti il colpevole è lui. Non sono chiari i rapporti tra Daesh e Jmb ma Tamin sarebbe stato a capo di una fazione pro califfato. Il quadro resta confuso, almeno nelle attribuzioni delle sigle. Daesh o no? Certo, ai famigliari delle vittime non deve comprensibilmente importare un granché, ma c’è un aspetto rilevante che non ha solo a che vedere con i diritti che vanno riconosciuti anche agli assassini e che è difficile riconoscere loro una volta morti. Il governo reagisce sempre come se Daesh non esistesse anche se ha rivendicato l’attentato a diversi stranieri, come nel caso degli italiani Cesare Tavella e Piero Parolari, quest’ultimo salvatosi per miracolo.

Per il governo laico della premier Sheikh Hasina, la responsabilità è sempre di gruppi locali e non di una branca in Bangladesh del progetto dell’Uomo nero in turbante. Del resto coi gruppi islamisti (alcuni dei quali – come Jmb – fuorilegge) il governo ha scelto il pugno di ferro da tempo e molto spesso i militanti finiscono giustiziati senza che possano poi essere interrogati. Diversi attivisti di Jmb sono stati uccisi in scontri a fuoco con le forze dell’ordine e sei dei suoi leader sono stati impiccati nel 2007 dopo che l’organizzazione aveva messo a punto, nel 2005, l’esplosione in un solo giorno di 500 ordigni (da allora è stata messa fuori legge). In questo Paese violento, anche sul piano del riconoscimento dei diritti, si alterna il pugno di ferro alla tolleranza necessaria a far convivere oltre 150 milioni di persone che sopravvivono su un Paese grande la metà dell’Italia e che sono in larghissima maggioranza di fede musulmana (e poveri).

È una storia difficile, complicata dal retaggio coloniale (e dalla guerra che divise l’allora Pakistan orientale – oggi Bangladesh – dal Pakistan) e di cui si fa fatica a venire a capo. A cominciare dall’attentato al bar: messo in atto da ragazzi che venivano da buone famiglie o, come Tamin, dalla diaspora ricca in Occidente. È che a volte, studiare apre il cervello e gli occhi anche sulle ingiustizie del proprio Paese e questo può portare a scelte radicali, specie se il retroterra culturale è un patrimonio di violenze. Ma Tamin non potrà raccontarcelo. Né dirci di Daesh o se davvero era stato lui a progettare l’attentato. Il governo e la polizia registrano una vittoria. Noi forse ne sappiamo meno di prima.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento