Lavoro

Uber, una sentenza che parla anche del caso Foodora

Uber, una sentenza che parla anche del caso Foodora

Foodora Il tribunale inglese che ha definito gli autisti di Uber come dipendenti offre un'interpretazione anche alla lotta dei fattorini italiani di Foodora sulla natura del loro contratto:

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 30 ottobre 2016

La sentenza della corte di Londra su Uber è potenzialmente significativa anche per quanto sta succedendo in Italia con i lavoratori della ditta di consegna cibo Foodora. Uno dei motivi della protesta dei fattorini di Foodora, in mobilitazione a Torino e a Milano da circa un mese, riguarda infatti il loro contratto: assunti con un contratto di lavoro parasubordinato co.co.co., i lavoratori chiedono invece di essere riconosciuti come dipendenti e come tali accedere ad una serie di diritti che ad oggi gli sono negati come la malattia o le ferie.

Benché la legislazione inglese e quella italiana siano molto diverse, alcuni rilievi del tribunale del lavoro inglese nel caso di Uber sembrano applicarsi anche nel caso Foodora. Il primo nodo centrale è quello del controllo sul processo lavorativo, criterio discriminante per distinguere se il lavoro sia autonomo o meno. Come nel caso di Uber, anche in quello di Foodora é la piattaforma a stabilire i compensi minimi, monitorare le tempistiche entro cui i fattorini accettano e portano a compimento un lavoro di consegna e fissare i luoghi in cui devono trovarsi per essere connessi al sistema. Anche se i rider operano con mezzi propri, i turni di lavoro e gli orari di disponibilità sono concordati. La piattaforma ha poi a sua disposizione lo strumento del licenziamento tramite disconnessione dalla app, di cui sono state vittime due promoter torinesi. E’ difficile quindi sostenere che i fattorini Foodora operino autonomamente, al di fuori del controllo gerarchico dell’azienda, decidendo da sé tempi e modalità di esecuzione del lavoro. E’ dunque legittimo che i rider di Foodora siano classificati come co.co.co.? Questa rimane una zona grigia a livello legale. Certamente dopo questa sentenza è più difficile argomentare, come ha fatto il management dell’azienda, che quello per Foodora non sia un lavoro ma solo un’opportunità di andare in bicicletta guadagnando qualche soldo.

Vi è poi il paradosso che il Jobs Act tramite l’abolizione della collaborazione a progetto abbia anche abolito il requisito introdotto dalla Riforma Fornero secondo cui i compensi dei collaboratori dovessero essere quantomeno equivalenti alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi del settore di riferimento. E così, mentre al worker nel sistema inglese è garantito l’accesso al salario minimo nazionale, ai fattorini di Foodora è possibile applicare un sistema di pagamento a cottimo di soli 2,70 euro a consegna. Come minimo, dunque, la normativa sul co.co.co. andrebbe modificata per reinserire il riferimento ai contratti collettivi dei lavoratori subordinati e stabilire così parametri di retribuzione equa. Ma la sentenza Uber offre uno spunto per rimettere in discussione in maniera più ampia la definizione del concetto di “autonomia” nel rapporto di lavoro, sempre più abusata per ridurre le tutele dei lavoratori nella gig economy e non solo.

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