Visioni

Tyshawn Sorey: «Oltre la cultura bianca, vado all’essenza della composizione»

Tyshawn Sorey: «Oltre la cultura bianca, vado all’essenza della composizione»Tyshawn Sorey – foto Mastergraphics Photography

Musica Dal jazz d’avanguardia alla contemporanea, è fra gli artisti più attesi alla Biennale Musica. Il Pulitzer, le collaborazioni e l’incontro con il lavoro di Morton Feldman

Pubblicato 19 giorni faEdizione del 22 settembre 2024

«Quando sono entrato nel mondo della composizione contemporanea, una ventina d’anni fa, venivo preso sul serio come compositore solo se scrivevo lavori che non contenevano improvvisazione. La distinzione fra composizione notata e composizione spontanea non dovrebbe essere così secca, ferrea, al punto che una sia più accettata dell’altra: nella cultura musicale da cui provengo queste linee di demarcazione non esistono».
Con un solo di pianoforte in cartellone domenica 29 (ore 17, Tese dei soppalchi), Tyshawn Sorey è una delle presenze più attese della 68esima edizione della Biennale Musica di Venezia, diretta da Lucia Ronchetti (26 settembre – 11 ottobre). Nato nel 1980 a Newark, New Jersey, Sorey è emerso sulla scena del jazz d’avanguardia come batterista di pirotecnica destrezza e acrobatica competenza ritmica, ma ha anche approfondito il suo interesse per la composizione in un lungo percorso di studi: caso più unico che raro – ma emblematico di un mondo musicale in mutamento – Sorey è al contempo una figura di punta del jazz di oggi e un protagonista dell’ambito musicale «contemporaneo». Dopo molti altri importanti riconoscimenti, Sorey è fresco di Pulitzer per la musica.

Ha vinto il Pulizer in Music 2024 con «Adagio (for Wadada Leo Smith»); lei ha dedicato brani anche ad altri esponenti – come Roscoe Mitchell e George Lewis – della AACM, l’associazione dell’avanguardia di Chicago fondata nel ‘65.

Mi sento come una specie di discepolo, e ho lavorato con parecchi musicisti della prima generazione di questa organizzazione, fra cui Roscoe, George, Wadada, ma anche Braxton, Steve Colson, Henry Threadgill. La Aaacm ha fatto un lavoro innovativo, basato sulla autodeterminazione dal punto di vista della blackness in America e sulla definizione autonoma dei termini di quello che desiderava fare creativamente, e a quei termini è rimasta attaccata senza farsi sviare da nulla. Non si può parlare di sperimentazione in musica senza parlare della Aacm e del suo contributo pionieristico…

Si può dire che l’incontro con il lavoro di Morton Feldman le ha rivelato aspetti cruciali della sua sensibilità musicale, o magari anche della sua personalità tout court?

Certo. Con Feldman finalmente incontravo non solo un compositore americano la cui sensibilità si accordava con quella di altri artisti che avevo molto cari come Roscoe Mitchell e Bill Dixon e anche Anton Webern – che pure ha avuto una enorme influenza su di me – ma anche un tipo di musica che era come quella che sentivo nella testa. Quando ascoltai per la prima volta Piano, un suo lavoro dei settanta, questo mi fece sentire legittimato ad andare nella direzione che mi interessava, di una musica complessa ma che aveva anche a che fare con il silenzio e con altri aspetti intorno ai quali avevo gravitato da quando ero molto giovane. La combinazione di Feldman, Dixon, Mitchell e Webern era proprio quello di cui avevo bisogno per trovare me stesso, cosa a cui sono arrivato verso il 2005-2006. E poi quando da giovane ascoltavo la loro musica, era un po’ come se immaginassi di essere Roscoe o Dixon, e volessi assimilare la loro personalità: ognuno di noi è diverso, ma quando stavo crescendo volevo essere come loro, e crescere è sempre così, anche adesso….

Diversi anni fa, ai musicisti di un ensemble contemporaneo disse: «voglio partire da un punto in cui le linee fra notazione musicale e musica improvvisata sono scomparse completamente».

La musica dell’Aacm toccava questo punto: quello dei contenitori in cui i neri tendono ad essere imprigionati dalle gerarchie e dalle forze dominanti della cultura occidentale, che li vedono come musicisti che fanno musica sulla base del feeling, senza qualità intellettuale che richieda un impegno dell’ascoltatore per andare oltre la superficie. Per me era un grosso problema, parliamo di quindici-venti anni fa. Il mondo della composizione oggi è molto diverso rispetto ad allora. Nella pratica di molti compositori queste linee hanno cominciato a scomparire, c’è chi finalmente ha fatto sentire la propria voce contro le nozioni bianche di cosa è la composizione, a favore invece della relazione con l’essenza della composizione in se stessa, spontanea o annotata.

Secondo Alex Ross l’«essere in mezzo» del suo lavoro è la fonte della sua forza; ma lei ha avuto occasione di dire che il prezzo era un «senso di non appartenenza».

In passato ho pensato molto a questo, a cercare di appartenere ad una particolare cultura musicale, all’ambito classico-contemporaneo, o alla cultura del jazz, eccetera. Superare questa preoccupazione mi ha preso molto tempo, e questo è stato il prezzo, per me. Ho quasi 45 anni e molta musica da fare, e non voglio passare il resto della vita a pensare a cose di questo tipo: posso solo fare quello che penso sia giusto.

Dal 2018 ha utilizzato testi di poeti afroamericani riferendosi all’esperienza nera, compreso il rischio che continua a costituire essere una persona afroamericana negli Usa.

È la mia esperienza, e penso come artista di avere la responsabilità di doverne parlare e sono orgoglioso di farlo. A volte la mia musica può essere semplicemente se stessa, ma a volte può essere su soggetti di questo genere, soprattutto nei lavori in cui c’è la voce, e si può entrare in relazione molto di più con le parole. Sono cresciuto a Newark, in un quartiere prevalentemente nero: a volte andavo a casa di Amiri Baraka, arrivava altra gente, si parlava della brutalità della polizia, di questioni politiche, del silenziamento delle voci nere della comunità. A diciotto-venti anni frequentavo le poetry jam, dove c’erano i nuovissimi poeti. Per me è importante portare avanti queste cose, e far passare il messaggio.

Quale è l’eredità di Amiri Baraka?

È come la Aacm. Rappresenta l’autodeterminazione, la lotta per far avanzare se stessi, nel modo in cui vuoi avanzare come persona nera, senza farti condizionare da qualcun altro: e l’indicazione di esprimerti nella forma più artistica possibile, che sia poesia, musica, spoken word, o qualunque altra cosa, riflettendo la tua esperienza di vita, come ha fatto lui. E’ stato un eroe, e tante volte ha messo a repentaglio la sua vita. Come artisti dobbiamo onorarlo e cercare di alzarci a quel livello di forza, di senso di sé.

Lei è cresciuto nella grande fase di affermazione dell’hip hop: ne segue l’evoluzione?

Certamente! L’evoluzione dell’hip hop è qualcosa di molto importante per me, non solo da un punto di vista culturale, ma anche da un punto di vista musicale ed artistico. Sono cresciuto nell’età d’oro dell’hip hop, in cui c’è stato così tanto che mi ha definito. L’hip hop ha espresso consapevolezza e raccontato la realtà e i pericoli del crescere nell’America nera, nei quartieri economicamente depressi. Adesso siamo a Kendrick Lamar, che per me è all’altezza di un Great American Songbook di oggi. Il messaggio continua. Ma è importante anche il lavoro di produzione, con figure come Timbaland e Questlove. Spero che si vada al di là dell’interessante lavoro di Robert Glasper e di altri, e che fra jazz e hip hop – due forme d’arte molto serie, che si sono influenzate a vicenda, fin dall’inizio dell’hip hop – si realizzino più integrazioni di quante ce ne sono state finora.

Che tipo di solo farà alla Biennale Musica?

Ci sarà una specie di intimità, di dimensione riflessiva, meditativa. È veramente molto raro che faccia dei piano solo, mi piacerebbe farne di più. La Biennale è un posto molto speciale per me: ci sono stato nel 2003 con Butch Morris (come batterista, ndr), alla mia seconda esperienza in Europa, e in effetti è stato proprio a Venezia, in quella occasione, che ho incontrato Roscoe Mitchell, George Lewis e Muhal Richard Abrams, che suonavano lì in trio: essere alla Biennale in quel momento, con tanti incredibili musicisti, è stata una esperienza indimenticabile.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento