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Twittare per (non) esistere

Verità nascoste I «grandi comunicatori» dicono poco in realtà perché nel loro sforzo di catturare l’attenzione perdono il contatto con se stessi e si appiattiscono sul bisogno del consenso

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 3 maggio 2014

Non esiste «celebrità» dello spettacolo, politici inclusi, che non «twitti». Perfino il nostro presidente del consiglio, a cui l’alta responsabilità della sua funzione consiglierebbe di fare (in modo sobrio) più che dire, si diletta a giocare con frasi ad effetto che lasciano il tempo che trovano (non tanto buono). Cosa spinge i personaggi della mondanità che dominano lo spazio pubblico, a ricorrere ad aforismi che non potendo essere distillati di saggezza (questo prodotto manca nei magazzini) sono regolarmente insapori o gaffes vere e proprie (nel migliore dei casi)? Questi personaggi non devono al Twitter il loro successo e la loro celebrità né hanno bisogno di usarlo per farsi conoscere e apprezzare. La loro mania è dovuta ad altro: il bisogno compulsivo di comunicare il loro pensiero, scaricandolo in realtà a causa della difficoltà di lasciarlo sedimentare per dare forma e espressione compiuta ai loro vissuti e alle loro visioni.

Si può vivere in una rete illimitata di relazioni e con i media pronti a dare risonanza a ogni propria opinione e sentire nondimeno di non essere in comunicazione con il mondo vero. La società dello spettacolo appiattisce l’immagine per motivi vari ma convergenti: diseduca a vedere (a cogliere le relazioni); ottunde la sensibilità della percezione (la capacità di farsi «pungere», destabilizzare da ciò che si vede – secondo la felice espressione di Barthes); disgiunge il visibile dall’invisibile che lo sorregge e lo anima. L’eccesso di visibilità che toglie profondità al pensiero opacizzando la lettura dell’immagine, non approda al silenzio (troppo vicino al sentimento di futilità) ma crea un eccesso simmetrico di parole che distoglie dalla sensazione del vuoto. Più la comunicazione si fa spettacolo meno comunica. Chi ci resta impigliato sa nel suo intimo che alloggia in un mondo di finzione dove le parole e le immagini perdono la loro forza comunicativa.

Lo statuto della comunicazione umana è antinomico: la nostra capacità di comunicare intenzionalmente mediante i gesti e le parole con soggetti altri da noi è fondata su una modalità di comunicazione primaria «silenziosa» (Winnicott), che rigorosamente parlando non potrebbe essere definita come comunicazione vera e propria ma come suo opposto, perché non è altro che il semplice, non intenzionale esistere in relazione spontanea con il mondo. Nessuna comunicazione è autentica se al livello più profondo dello scambio emotivo e mentale che avviene in una relazione erotica, d’amicizia, di parentela, di lavoro non è presente la nostra capacità di essere in un mondo privo di confini, senza altro desiderio che il fluire della relazione stessa. Soltanto se parte da questo luogo di piena presenza in sé all’interno del mondo il nostro gesto (che costruisce l’immagine o ne afferra creativamente il senso) può incontrare veramente la realtà e diventare parola che riconosce nell’altro a cui si rivolge non un oggetto da manipolare ma un soggetto autonomo dalla nostra volontà con cui dialogare.

Vivere all’interno di una grande platea mediatica spersonalizzante – non tanto per la sua vastità quanto perché sostituisce la fascinazione al coinvolgimento – indebolisce il senso della propria esistenza e la consistenza del proprio discorso. I «grandi comunicatori» dicono poco in realtà perché nel loro sforzo di catturare l’attenzione perdono il contatto con se stessi e si appiattiscono sul bisogno del consenso. Vorrebbero ritrovare il senso personale del loro pensiero e aprirsi alla comunità e alla realtà, ma sono prigionieri della messinscena che ha preso il posto del loro sogno.

 

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