Tra lo sciopero del 2023 che ha decimato le uscite di quest’anno e, a monopolizzare l’attenzione del pubblico, il cliffhanger elettorale che diventa ogni giorno più imprevedibile (senza contare le Olimpiadi), l’estate cinematografica americana non offre nulla di remotamente vicino a quel fenomeno culturale e di box office che è stato Barbenheimer. In un panorama in cui il calo delle vendite dei biglietti è stimato intorno al 24 percento, e il solo studio che sembra uscire bene dal disastro è la Disney – con Inside Out 2 e Deadpool & Wolverine – l’unico film che sembra creare un po’ di conversazione è Twisters. La ripresa del successo meteo-catastrofico diretto da Jan de Bont nel 1996, da una sceneggiatura di Michael Crichton e Anne-Marie Martin, sfoggia – come il film originale – il logo della Amblin. Anche il DNA di Twisters (nella «s» del plurale, l’eco di come oggi le maxi trombe d’aria non siano più un’anomalia) è quello di uno Spielberg vecchia maniera. Dove, nel mezzo di un tornado particolarmente devastante, l’edificio più sicuro in cui rifugiarsi è… un cinema. Altro tocco cinefilo, Twisters è girato in 35mm.

CERTO, Lee Isaac Chung, dietro alla macchina da presa, non è Spielberg, JJ Abrams e nemmeno Jan de Bont, ma – pur non essendo un visionario dell’azione o della suspense – il regista del successo indipendente Minari mette a buon frutto la sua infanzia trascorsa in gran parte in Arkansas imprimendo al film e ai personaggi una sensibilità Midwestern che non è sempre garantita nel cinema spettacolare hollywoodiano.

IL FILM è ambientato in una parte dell’Oklahoma soprannominata Tornado Alley, il vicolo dei tornado, una distesa piatta in cui converge annualmente una colorata sottocultura fatta di meteorologi, cacciatori di brividi da mega tempeste, Tik Tok influencer e, scopriremo, speculatori immobiliari che comprano a prezzi stracciati le case e le terre delle comunità devastate dal maltempo. L’attrice inglese Daisy Edgar-Jones è Kate, cresciuta nei dintorni e appassionata fin da piccola dei tornado, per i quali sembra avere un sesto senso, e che sogna di poter «spegnere» con una miscela chimica da iniettare nel cuore della temibile colonna d’aria. Quando, durante un esperimento per provare la sua teoria perdono la vita i suoi migliori amici, Kate abbandona l’idea e l’approccio diretto, andando a nascondersi dietro la scrivania di un ufficio di New York, a studiare tornado dallo schermo di un computer. La richiama sul campo un ex compagno di scuola (Jesse Ramos) dotato di apparecchiature capaci di scannerizzare un ciclone per poi analizzarlo.

TWISTERS decolla veramente solo quando, insieme a Kate e alla sua nuova squadra di caccia tornado – tutti in bianco, high tech e molto corporate – appare una loro versione alternativa, capitanata da Tyler Owens (Glenn Powell, dopo Hitman) una stella di YouTube che, invece di cercare di «spegnere» i twister, spara loro dentro coloratissimi fuochi d’artificio a beneficio di milioni di videofan. Dietro al look di cinico e vanesio cowboy del meteo-disastro Tyler (Powell è una specie di Tom Cruise, più autoironico e senza l’edge di Scientology) nasconde non solo un certo insight scientifico ma anche un cuore. Se – come si sono lamentati alcuni critici – Twisters evita di affrontare in modo esplicito la crisi ambientale, una buona porzione del film (diversamente dalla versione de Bont) è spesa tra le macerie risultanti da pochi istanti di tornado. Lee Isaac Chung e il suo sceneggiatore, Joseph Kosinski, evitano il pistolotto sui perché queste catastrofiche manifestazioni metereologiche si stanno moltiplicando – ma il loro effetto distruttivo è chiaro. È una realtà che il centro degli States conosce molto meglio dei residenti delle due coste.

TRA QUELLE macerie, Tyler e i suoi distribuiscono cibo e coperte. Forse anche per quell’empatia e sicuramente per il suo spirito antiestablishment (i nuovi soci high tech di Kate si riveleranno dei poco di buono e lei tornerà nel laboratorio di quando era ragazzina perfettamente preservato nella fattoria della mamma) Twisters sta andando benissimo in particolare nella cosiddetta red America. Il che non ne fa un film che glissa sulla crisi ambientale perché diretto all’elettorato di Trump, come ha invece bizzarramente suggerito – in un’apoteosi di idiozia da culture war – un recente articolo apparso sul New York Times.