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Tuymans, i revenants del Barocco

Tuymans, i revenants del BaroccoLuc Tuymans, "Rome", dalla serie Les Revenants, 2007

Conversazione con Luc Tuymans in occasione di un suo passaggio romano alla Galleria Borghese Che cosa c’entra con Rubens e gli altri la pittura silenziosa dell'artista belga? «Mi interessa l’aspetto cinema e il problema della natura delle immagini»

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 31 marzo 2024
Luc Tuymans

Era la fine di gennaio scorso, quando un noto pittore contemporaneo belga parlò del Barocco alla Galleria Borghese, proprio mentre andava ivi concludendosi la bella rassegna su Rubens curata da Francesca Cappelletti e Lucia Simonato. Il pittore è Luc Tuymans. Ma cosa c’entra con lui il Barocco? La risposta breve è: apparentemente nulla. Quella lunga, invece, richiede una riflessione più articolata, ed ecco la conversazione avuta con lui quel giorno.

Certo, nel 2018 fu affidata a Tuymans la curatela di Sanguine, grande mostra incentrata sul Barocco come chiave di lettura della contemporaneità, a seguire la via aperta da Benjamin sul Trauerspiel: al MHKA di Anversa , e alla Fondazione Prada di Milano, furono ordinate, con un rigore invero poco barocco e molto tuymansiano, opere di artisti da Caravaggio ai fratelli Chapman, un coarcervo di opzioni tra le più eterogenee e distanti nel tempo, centrifugo come le brigate di santi e di putti di una volta del Pozzo, e apparentemente sempre sul punto di esplodere (quasi viene in mente Ungaretti: «il Barocco è qualche cosa che è saltato in aria, che s’è sbriciolato in mille briciole: è una cosa nuova, rifatta con quelle briciole, che ritrova integrità, il vero»), che l’artista belga teneva sapientemente coeso.

Eppure, asserisce candidamente Tuymans, «non sono mai stato particolarmente interessato al Barocco, non ci ho mai avuto niente a che fare personalmente». E in effetti, osservando quella sua pittura così trattenuta e silenziosa, dove il dramma viene al massimo filtrato attraverso una densa lente razionale, sembrerebbe diradarsi ogni possibile lettura barocca della sua ricerca.

Prendiamo la pittura di Rubens, ad esempio. Da un lato, riconosce Tuymans, «la mia idea di pittura è meno forte, meno rumorosa, e si indirizza verso un tocco più minimale» rispetto alla magnificenza del maestro barocco, e al suo lavorare «fuori da una visione concentrica attorno alla quale ogni cosa si muove, cosicché tutto è animato nell’intero piano della figura»; dall’altro, suggerisce che «la cosa interessante in Rubens, e anche in Caravaggio, è un elemento cinematografico estremamente rilevante», alludendo a una lettura riguardante più la natura delle immagini, che non lo stile e la qualità della pittura.

Una lettura applicata da Tuymans anche a Jan van Eyck, pittore cardinale per l’arte dell’emisfero occidentale poiché si trova a operare nel «momento in cui l’immagine viene aperta al mondo: dipinse Adamo ed Eva in un modo estremamente realistico e ciò dovette essere uno shock enorme per l’epoca in cui vennero mostrati».

D’altra parte, seguendo quanto sondato da Gerhard Richter nel rapporto tra immagine fotografica e pittura, Tuymans ha utilizzato come innesco per la sua pittura proprio fotografie o fotogrammi da film, fondando la propria ricerca su un’ossessione per il mondo delle immagini, che è anche, e soprattutto, indagine sulle loro ambiguità e proprietà semiotiche, su come l’osservatore le riconosce, le valuta, ne subisce il potere. E il Barocco – nel suo essere, spiega, «un movimento globale, come una struttura aperta, qualcosa che è stato il primo movimento artistico globalizzato, in un certo senso» – trovò nella diffusione delle immagini uno dei mezzi più efficaci e capillari per esercitare il potere e trasmettere la propria ideologia.

È questo meccanismo che attrasse l’attenzione di Tuymans, ben prima della sua commissione per Sanguine, e oltre l’apparente noncuranza con cui ha liquidato l’argomento, come lui stesso rivela: «mi sono interessato al Barocco realizzando la serie dei Gesuiti, perché questi si promossero attraverso l’immagine, le opere teatrali, e usarono tutto l’ideale dei media visivi nella religione per la prima volta, in un certo senso». Quella serie, cui appartiene anche una allucinata veduta dell’interno di San Pietro durante un concistoro (cui partecipò anche il controverso cardinale belga Godfried Danneels), era intitolata Les Revenants (2007), e fu occasione per Tuymans di indagare proprio la dinamica tra potere e immagini, intese come metafore per comunicare concetti astratti all’interno di una precisa strategia educativa messa a punto dall’ordine gesuita, le cui scuole «nel mio paese hanno creato e ancora creano le élites».

Di fatti, quello che interessa maggiormente l’artista è «analizzare perché un’immagine può essere potente, e investigare su quel punto di incontro tra indice, simbolo e icona, che è dove ogni immagine in realtà si forma», tanto nella nostra epoca come in quella barocca, salvi i debiti distinguo, sebbene anche il solo pensare un tale accostamento tra questi mondi così similmente globalizzati, per Tuymans voglia dire «che il Barocco non è stato qualcosa di veramente finito, ma in qualche modo ha prolungato se stesso in modi e forme differenti, e questa è la cosa interessante, ma anche il motivo per cui è difficile categorizzarlo».

E a proposito del confronto tra Barocco e Contemporaneo, era stato probabilmente Jean Baudrillard a dare il miglior commento possibile, nella sua veggente lucidità, scrivendo che «come praticanti del barocco, anche noi siamo irrefrenabili creatori di immagini, ma siamo segretamente iconoclasti – non nel senso che distruggiamo le immagini, ma nel senso che produciamo una profusione di immagini in cui non c’è nulla da vedere».

Di questa «profusione di immagini», si diceva, Tuymans ha fatto la sua riserva di caccia, per costruire una ricerca dalla forte valenza politica, non solo nel cercare le ragioni dell’immaginario contemporaneo – «l’intera rete dei social media propina un immaginario sia a sinistra sia a destra, ed è interessante, per me, vedere sino a dove quell’immaginario è rilevante: cosa significa in termini di potere, di interferenza, di politica?» –, ma anche nella predilezione per certi soggetti, pur sempre camuffati o dissimulati attraverso la pittura. Le tele di Eternity (2021) reinterpretano, straniandoli, alcuni diagrammi ideati per studiare il fenomeno della polarizzazione politica nel Senato statunitense; il tema del COVID – «Artforum» ebbe l’idea non proprio originalissima di comissionargli un dipinto sul virus – è stato risolto con una serie di numeri primi, perché «venivamo fuori da una pandemia, che era numeri – ricorda Tuymans –, ma decisi di usare solo numeri irregolari, quattro dipinti, uno, tre, sette , nove, che tu non puoi veramente dividere».

Ed è anche rilevante, nel modus operandi di Tuymans, l’utilizzo frequente di immagini sul nazismo che, a differenza di Richter, il quale spesso utilizza fotografie di famiglia, vengono scelte appositamente per lavorare sul meccanismo semantico: il noto dipinto con il ritratto di Albert Speer, in cui l’assenza di divisa ostacola l’immediato riconoscimento quale architetto del nazismo, e dunque foriero di orrore, funziona poiché la riflessione sul segno e sul significato diviene anche riflessione etica e politica.

Quest’opera è tra quelle che nutrono l’ambizioso progetto Secrets, in collaborazione con Bozar e ancora in fieri, con il quale Tuymans sta indagando riuscita e fallimento nei processi di riconoscimento delle immagini da parte delle intelligenze artificiali, variabili della nostra nuova dimensione sociale e politica.

Infine, se volessimo tracciare una linea che unisce Barocco e Tuymans, non potremmo ignorare una curiosa distanza tra lo spirito irrazionale dell’uno, e l’apparente inflessibilità razionale dell’altro, che più di una volta ha affermato di porsi davanti alla tela «come un chirurgo», non lasciando nulla al caso, e senza cercare l’emozione degli osservatori. Eppure «nel dipingere c’è sempre qualcosa che mi sfugge, e quella è la parte irrazionale», ammette, «ma non così tanto da provare a esprimere sulla tela la mia anima o qualcosa di patetico».

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