Editoriale

Tutto è perduto, anche i tribunali

Il 13 settembre, giorno fatidico per la soppressione di decine di tribunali e altre sedi giudiziarie, è arrivato. Portando con sé, prevedibilmente e inevitabilmente, estese rivolte popolari che rischiano di […]

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 14 settembre 2013

Il 13 settembre, giorno fatidico per la soppressione di decine di tribunali e altre sedi giudiziarie, è arrivato. Portando con sé, prevedibilmente e inevitabilmente, estese rivolte popolari che rischiano di superare quelle, abbastanza circoscritte, per i capoluoghi di regione (L’Aquila e Pescara, Reggio e Catanzaro). La riforma della geografia giudiziaria è stata sempre invocata da tutti, giudici e politici compresi, perché quella attuale era modellata su una Italia «contadina» fatta di luoghi poco accessibili e con servizi senza alcun supporto informatico.

Mutata la situazione geopolitica, bisognava adeguarsi ai tempi anche per dare una prima scossa all’inefficienza di sedi con carichi giudiziari inconsistenti e, per ciò stesso, spesso con piante organiche assolutamente insufficienti. I tribunali, però, a differenza delle province che interessano solo la città direttamente coinvolta nella soppressione, muovono interessi diffusi e passioni localistiche di interi territori e, soprattutto, categorie sociali fondamentali per la tenuta del potere politico dei partiti e delle burocrazie ad essi incatenate.
I tribunali sono la storia di un territorio, ma anche il luogo dove si forma la classe dirigente locale e, da questa, quella nazionale. Basta fare il conto di quanti avvocati e giudici siedono in parlamento, tutti concordi nell’invocare la riforma della giustizia partendo anche dalla riduzione delle inefficienze, purché non si tocchi il loro tribunale che è sempre il più essenziale di tutti, il più indispensabile per rendere una giustizia «comoda» ai cittadini, senza costringerli ad estenuanti peregrinazioni verso sedi distanti, molte volte, pochi chilometri dal luogo natio.

Lo sgarbo poi è accentuato da rivalità secolari tra città e città (Lanciano-Chieti, Melfi-Potenza…), difficili da sopire. Come pure immancabilmente la scelta della soppressione viene letta non come una istanza di razionalizzazione ma come una pura e semplice vittoria del ceto politico di una città sull’altra, anche se interno allo stesso schieramento partitico.
Centrale è il ruolo degli avvocati e degli amministratori locali, i primi protesi a difendere la giusta causa dei loro clienti costretti a spostarsi con loro che però già da anni si spostano senza problemi (si pensi ai giudizi in Cassazione), i secondi pronti a ricordare il tracollo economico che la soppressione comporta, senza riflettere che i veri problemi non vengono dalla mancata affluenza di imputati , con un turismo mordi e fuggi insignificante per l’economia cittadina ma, per esempio, dalla desertificazione industriale della loro area. Vedi Termini Imerese che perde la Fiat: magari perdesse il tribunale ma riacquistasse il suo polo industriale!
È un’Italia dei comuni che non vorrebbe morire e che per dirlo oggi prende lo spunto da queste soppressioni dei tribunali. Un’Italia che non scende in piazza e fa barricate per i tagli selvaggi che hanno spento gli enti locali rendendoli ingovernabili e caricato di balzelli i cittadini, ma che si mobilita per battaglie inutili, guardando indietro alle gloriose tradizioni dei tribunali alla cui sopravvivenza non è certamente legato il suo futuro.

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