Quando, nel 1976, Garzanti pubblicava le centotrenta pagine del romanzo Un borghese piccolo piccolo, il trentaseienne Vincenzo Cerami vantava un’esperienza precocissima e quasi decennale con il mondo cinematografico, frequentato sia come sceneggiatore (per Rossetti, Vanzi e Baldi tra gli altri) che come aiuto regista.
In quest’ultima veste, l’ex giocatore di rugby del Frascati che aveva abbandonato gli studi universitari di fisica per studiare differenti linguaggi artistici (la poesia, la narrativa e il cinema, appunto), aveva affiancato quel Pier Paolo Pasolini che già gli era stato maestro alle scuole medie di Ciampino. Presentando quel primo tassello di un’opera che ad oggi, al momento della scomparsa, conta quasi trenta titoli in volume, Italo Calvino così scriveva: «È una storia di vittime e nello stesso tempo di mostri, quella che Cerami racconta: vittime di una assurdo che possiamo scegliere di definire sociale oppure metafisico senza che questo cambi nulla nell’oscura, quasi inarticolata determinazione con cui vi si muove chi non ha altro fine che il farsi largo entro un chiuso orizzonte. Ci rendiamo conto che l’assurdo di questa tranche de vie dei nostri giorni ha una dimensione di tragedia. E che è una Roma letterariamente inedita quella che Cerami ci mostra: feroce sotto la risaputa apparenza bonaria».

Facevano eco, queste parole, a quelle dello stesso Pasolini che, in un pezzo di qualche anno prima sulla giovane narrativa italiana, definiva il manoscritto del romanzo «neocrepuscolare» e «atroce». Secondo Angelo Guglielmi, poi, «Un borghese piccolo piccolo non è un romanzo documento giacché, se non rinuncia a una descrizione lucida e puntuale di un certo ambiente e di una certa città (la fauna degli impiegati romani), tuttavia introduce nell’impianto del racconto elementi dirompenti di carattere comico (per esempio la cerimonia di iniziazione massonica) o comunque elementi di inverosimiglianza o francamente assurdi (si pensi alla sequenza della cattura dell’assassino e al suo trasporto nella baracca) che fanno saltare la superficie coerente e congrua delle cose e la rovesciano scoprendone l’incongrua oscurità».

Pur fugando il rischio di sterili ripetizioni, da queste esatte e puntuali coordinate lo scrittore romano si è discostato raramente negli anni a seguire, approfondendo quello sguardo originario e arricchendolo di variegate sfumature che hanno sempre avuta la funzione, insieme, di rafforzare e sconfessare l’apparenza naturalistica dei suoi impianti narrativi. A ben vedere, infatti, sia dai successivi Amorosa presenza (1978) che Tutti cattivi (1981), lo specchio deformato della realtà non ha offerto, a Cerami, che lo spunto iniziale, fin quasi pretestuoso, per indagare i sintomi di un inconscio collettivo e sociale massimamente riaffiorante nei fattacci (come titola un volume del 1997) della vita quotidiana o nella stereotipia di quel romanzo d’appendice – di genere rosa o nero – in cui spesso si traduce la più sentimentale esperienza umana (esemplari, romanzi come L’incontro e Vite bugiarde, rispettivamente del 2005 e del 2007).

. E se, il titolo che a tutt’oggi ricorre più di frequente quando si parla di Vincenzo Cerami è proprio quello dell’esordio, ciò non fa torto al resto della sua produzione, ma testimonia, al più, la bontà di un’idea letteraria tanto radicata e salda che, qualche anno fa, non ha stupito trovare, nel romanzo sperimentale [do action=”citazione”]Scrittore realista, dunque, Cerami lo è stato in senso più che proprio, ovvero iperrealista – fin quasi approdando a un espressionismo sui generis -, armato di una lingua che più che dire si preoccupa di fare, mostrare e, conseguentemente, deformare fino a grattare, dalla superficie delle cose, la vernice pesante delle convenzioni e della banalità senza pigli riformatori o moralizzatori, ma con lo sguardo pietoso di chi, tra quelle cose, vive e sopravvive tra pari[/do]La cura dell’acqua, dello statunitense Percival Everett, nient’altro che una nuova versione (eccentricamente fedele) del conflitto vittima-carnefice raccontato in Un borghese piccolo piccolo: meritato omaggio – sebbene probabilmente inconsapevole – ad uno scrittore e ad un uomo che, come ha scritto Filippo La Porta recensendo i racconti de La sindrome di Tourette (2005), ha sempre considerato l’arte letteraria «un gioco serissimo, a rischio, dato che lo scrittore attinge ai suoi fantasmi, si mette a nudo, pesca nelle proprie fragilità». Che sono, poi, lo impariamo leggendo, anche le nostre.