In occasione della scorsa ricorrenza di Halloween la celebre anchorwoman Usa Megyn Kelly durante il suo show sul network Nbc, commentando le tradizioni della festa, si è chiesta come mai dipingersi la faccia di nero fosse considerato razzista. «Che cosa c’è di razzista? – ha chiesto la conduttrice -. Perché dovresti finire nei guai quando ti dipingi la faccia di nero se sei bianco, o quando un nero si dipinge la faccia di bianco a Halloween? Quando ero bambina era ok, finché faceva parte di un costume. Ti vestivi come un personaggio».
La conduttrice pochi giorni dopo è stata licenziata. Il rapper canadese Drake è un nero ma con la pelle molto chiara, tanto da essere stato accusato di essere «troppo bianco»; lo scorso maggio è stato nell’occhio del ciclone per aver postato una sua foto con la faccia dipinta di nero. «È una foto del 2007 – si è difeso l’artista – all’epoca ero un attore e lavoravo a un progetto sui giovani attori neri che lottavano per conquistarsi dei ruoli cercando di sopravvivere agli stereotipi».
L’attore-rapper Donald Glover (nella sua incarnazione musicale Childish Gambino) ha realizzato un controverso video per la canzone This Is America (brano che peraltro ha appena vinto il Grammy Award come canzone dell’anno) in cui raccoglie stereotipi, pregiudizi e contraddizioni degli Stati Uniti di oggi. Nel video entra in scena con uno strano balletto che ricorda una figura del folklore Usa, diventato sinonimo di discriminazione, Jim Crow.

DA METABOLIZZARE
Sono passati 55 anni dalla promulgazione del Civil Right Act, la legge contro la segregazione razziale, gli Stati Uniti hanno avuto per otto anni un presidente afroamericano, ma il tema razziale è più presente che mai nel dibattito politico e sociale.
Nell’ambito della cultura, una parte di questo confronto è proprio legata a un tema, mai del tutto metabolizzato dal mondo artistico statunitense, e che riguarda la tradizione del «blackface» cioè degli spettacoli di artisti bianchi che si esibivano dipingendosi la faccia di nero. Una tradizione folklorica in gran parte rimossa e ignorata o perché ritenuta, a torto, innocua e marginale (come ha pensato la sprovveduta Megyn Kelly) o per la ragione opposta, perché parte di una storia razzista e oggi imbarazzante. Ma questo passato innominabile segnò la nascita di un’identità culturale genuinamente Usa.
Approfondire la storia di questo fenomeno significa indagare sulle fondamenta dello spettacolo e della musica popolare statunitense, scoprendo che sono basate su pregiudizi etnici e sociali. È per questo che oggi è un argomento taboo. Come essere a conoscenza di un crimine di un proprio antenato.

IDENTITÀ CULTURALE
Questa storia ha le sue origini nella prima metà dell’Ottocento. Un paese giovane come gli Stati Uniti era alla ricerca di una propria identità culturale che si staccasse dall’Europa e dall’ingombrante influenza degli ex-colonialisti inglesi. Il rapporto con l’antica madre patria non solo non si era rimarginato, ma si era inasprito con le guerre napoleoniche che ebbero uno strascico oltreoceano con il conflitto anglo-americano del 1812 nel corso del quale i britannici bombardarono Baltimora e assediarono Washington incendiando la Casa Bianca. Fu l’apice della rivalità tra stati americani e corona britannica e un momento di orgoglio nazionale. Lo stesso inno americano nacque in occasione di un episodio di quel conflitto (vedi «Alias» del 15 settembre 2018, ndr). Gli anni seguenti segnarono per il paese il tentativo di formare una cultura popolare autoctona che appartenesse agli americani anglosassoni. Fu così che si arrivò al primo vero successo musicale che unì tutto il nuovo mondo anglofono: la canzone Jump Jim Crow. Il brano, che appartiene agli anni venti del XIX secolo, venne scritto da Thomas Dartmouth Rice un newyorkese bianco che prese come spunto un personaggio che proveniva dalla cultura degli schiavi neri. Jim Crow era, nell’immaginario degli schiavi, un furbo capace di approfittare delle situazioni. Probabilmente era una figura esistita realmente di un mendicante nero storpio, ma era stato trasformato in una sorta di Arlecchino servitore di due padroni, capace di gestire le situazioni a suo vantaggio nonostante fosse in posizione subalterna. Rice riprese questa maschera e sulla base anche della diffusa popolarità dei clown del circo che impersonavano, deridendoli, i neri, fece di Jim Crow il personaggio buffo di una canzone e di un ballo. Jump Jim Crow (Salta Jim Crow) era cantata da Rice, con il nome d’arte di Daddy Rice con la faccia annerita (con sughero bruciato, cerone nero o lucido da scarpe), in uno slang che scimmiottava la parlata degli schiavi e con un ballo da Pulcinella che parodiava l’andatura dei neri. Era una filastrocca che elencava le peripezie di un protagonista ingenuo e fortunato: «Prima do un colpo di tacco poi di punta, ogni volta che giro su me stesso saltello come Jim Crow­». Più di un secolo prima del rock’n’roll, Jump Jim Crow divenne un fenomeno di costume e un successo tale che anni dopo Rice fece addirittura un tour nella nemica Gran Bretagna. Il primo caso di un successo musicale Usa d’esportazione.

OPERA BUFFA
Jim Crow segnò l’inizio di una nuova sorta di commedia dell’arte, vagamente ispirata all’opera buffa europea, ma genuinamente statunitense. Rice era un saltimbanco girovago nella tradizione medievale dei menestrelli, in inglese «minstrel». In seguito al suo successo, il termine «minstrel» negli Stati Uniti fu definitivamente legato alle esibizioni in cui artisti bianchi si dipingevano la faccia di nero. Il numero di Jim Crow, nato come momento musicale parte di un varietà era destinato a diventare la prima espressione di un vero e proprio universo teatrale.
Con i Virginia Minstrels, fondati nel 1842 da Dan Emmett, nacque la prima compagnia che mise in scena uno spettacolo totalmente dedicato a numeri «blackface». Da un siparietto clownesco si era passati a un completo show in cui un gruppo di attori e cantanti bianchi si esibiva con i volti dipinti di nero e con personaggi che ricalcavano tutti gli stereotipi dei neri d’America. I Virginia Minstrels debuttarono a New York e il loro show fu così popolare che istantaneamente diede origine a una numerosa serie di imitatori e a una sempre crescente domanda da parte del pubblico.
Nel 1844 il Minstrel Show debuttò alla Casa Bianca a opera di una formazione chiamata Ethiopian Serenaders. Si generò così uno spettacolo standard solitamente diviso in tre parti che includeva numeri comici e canzoni, il tutto sempre eseguito in una parlata che voleva rappresentare quello che veniva definito il «dialetto delle piantagioni». L’inglese parlato dai neri, così come lo pensavano i bianchi. Lo spettacolo iniziava con una marcia degli attori sul palco che rievocava la sfilata degli schiavi che si dirigevano sui campi di lavoro. Sul modello di Jim Crow i personaggi divennero delle macchiette. L’unico volto bianco sulla scena era Mr. Intelocutor, la spalla, il maestro di cerimonie dall’atteggiamento esageratamente affettato, e poi il cast di personaggi interpretati da bianchi con la faccia dipinta di nero tra essi Brother Tambo o Mr Tambo, che suonava il tamburello, Brother Bones o Mr. Bones, che suonava delle nacchere fatte con ossa di maiale e Zip Coon il nero di città, emancipato ma goffo. Gli spettacoli erano un misto di pregiudizi e di paternalismo. I personaggi neri apparivano sempre ignoranti, pigri e infantili. Sedimentavano l’idea che gli afroamericani fossero sostanzialmente inferiori e che aveva trovato una loro dimensione, anche culturale, nella sottomissione.
I neri non apparivano mai minacciosi, erano bonari, accondiscendenti e servizievoli. Per i fautori dell’emancipazione era un modo con cui ci si avvicinava alla vita dei neri, per gli schiavisti era la conferma che i neri erano comunque a proprio agio nella loro condizione. La cultura popolare Usa aveva bisogno di rassicurazioni nei confronti delle proprie colpe e i minstrel show offrirono esattamente questo.
Dan Emmett, fondatore dei Virginia Minstrels, proveniva da una famiglia abolizionista e non pensava certo che il suo spettacolo fosse una vetrina razzista, è ritenuto l’autore di Dixie, una delle canzoni più popolari della tradizione ottocentesca americana. Il brano è il simbolo stesso delle contraddizioni dell’America di quegli anni (e forse anche di oggi). Nato per essere cantato da un interprete in «blackface» era un inno paternalista in cui un nero identificava nella «terra del cotone» la sua patria. Era una delle canzoni preferite di Abraham Lincoln che la volle ascoltare nel giorno della resa del generale Lee, ma fu popolarissima anche tra le truppe secessioniste durante la guerra civile. Lungo tutto l’Ottocento la cultura statunitense passava attraverso il minstrel show.

IL PRIMO AUTORE
Steven Foster fu con Emmett il primo grande autore di musica popolare Usa. La sua canzone più famosa è la conosciutissima Oh, Susanna!, scritta nel 1848 e destinata a diventare l’inno dei cercatori d’oro della California. Era stata scritta per il teatro blackface. Foster era un convinto fautore dei diritti dei neri e nel corso della sua carriera si renderà conto del rovescio della medaglia di questa scena artistica e si esprimerà pubblicamente contro molti degli stereotipi che i minstrel perpetravano. Ma all’epoca, sia dentro che fuori da questo mondo, in pochi si rendevano conto delle connotazioni profondamente razziste di canzoni e spettacoli.
Lo scrittore Mark Twain, cresciuto nello stato schiavista del Missouri, era particolarmente affezionato a quella forma di intrattenimento. «Ricordo – scriverà negli ultimi anni della sua vita – il primo “negro musical” che vidi. Erano gli anni Quaranta. Era una cosa completamente nuova. Nel nostro villaggio di Hannibal non ne avevamo mai sentito parlare e fu per noi una straordinaria sorpresa. (…) I minstrel apparivano con mani e facce nere come il carbone e i loro abiti erano chiassosi e stravaganti e si burlavano degli abiti degli schiavi neri delle piantagioni all’epoca. (…) Le loro labbra erano ispessite e allungate con un colore rosso vivace che le faceva assomigliare a fette di anguria. Avevano belle voci e i loro assoli e i loro cori erano per me una delizia».
Ben diversa era l’opinione dell’ex schiavo Frederick Douglass, il pioniere dei diritti civili americani, che in un articolo del 1848 descriveva il teatro blackface come, «lo schifoso letame della società bianca». «Ci rubano – scriveva – la fisicità che a loro la natura ha negato e fanno soldi compiacendo il gusto corrotto dei loro concittadini bianchi». Ma l’opinione di Douglass, come la sua figura e le sue idee sui diritti, erano del tutto eccezionali per l’epoca. La cultura popolare scoprì una propria identità americana in questi spettacoli di commedia dell’arte grotteschi e razzisti da cui nacque un repertorio di musica poi confluito nella tradizione: non solo Jim Crow, Dixie e Oh, Susanna!, ma anche Ole Zip Coon, The Boatman’s Dance, Jim along Josey e Old Dan Tucker quest’ultima riproposta anche da Bruce Springsteen nella sua antologia folk Seeger Sessions. La crescente passione del pubblico per i minstrel show portò, anche per necessità, a far sì che le compagnie reclutassero, per riempire i ranghi, artisti autenticamente neri.
Il caso più celebre è quello di William Henry Lane l’inventore della «tap dance» che divenne popolare con il soprannome di Master Juba e fu celebrato da Charles Dickens nel suo reportage di viaggio Note americane. I neri erano costretti a esibirsi secondo le regole delle compagnie e quindi si tingevano anch’essi la faccia di nero e dovevano adeguarsi agli stereotipi imposti dalle loro maschere. Erano detti real coon gli autentici «coon», un termine oggi ritenuto un pesantissimo insulto razzista, ma di uso frequentissimo in quegli spettacoli e probabilmente derivato dallo spagnolo barracón, cioè dalle baracche che ospitavano gli schiavi prima di essere venduti. Dopo la Guerra Civile 4 milioni di neri furono formalmente liberati dal giogo della schiavitù nei quindici stati al di sotto della linea Mason Dixon che era stata il confine dei secessionisti. Una famiglia ogni quattro nel sud possedeva degli schiavi. La fine della schiavitù fu però l’inizio di un regime di segregazione destinato a durare ancora un secolo.
Gli anni ruggenti dei minstrel, quando esistevano più di cento compagnie di giro in tutti gli Stati Uniti e dieci teatri di New York erano dedicati solo a questi spettacoli, erano conclusi. Gli spettacoli si erano arricchiti di musiche, personaggi e nuovi stereotipi come l’onnipresente«mammy», la domestica nera generosa, materna e sempre servizievole. Allo stesso tempo avevano dato al pubblico bianco l’idea che l’intrattenimento musicale dovesse essere legato in qualche modo, apocrifo o autentico, ad artisti neri. All’inizio del Novecento Ernest Hogan divenne il primo afroamericano a diventare la star di uno show di Broadway, aprendo la possibilità agli artisti neri di esibirsi da protagonisti senza mascherarsi. Fu uno dei fondatori del ragtime, un genere musicale che conquistò gli Stati Uniti nei primi due decenni del secolo. Anche Hogan aveva iniziato nel teatro blackface e prima di diventare protagonista del musical The Oyster Man nel 1907, aveva goduto di uno straordinario successo con la canzone All Coons Look alike to Me (Tutti i coons mi sembrano uguali) che nasceva dalla satira razzista dei minstrel e diede origine al sottogenere delle Coon Songs, una stagione di hit musicali che si prendevano gioco dei neri.

AUTOSATIRA
Fare satira su sé stessi era il prezzo che i neri dovevano pagare per essere accettati dai bianchi e per poter abbattere le barriere. Il teatro blackface rimase però parte integrante dell’intrattenimento. La star più brillante dello spettacolo musicale Usa di inizio secolo fu il cantante Al Jolson che spesso di esibiva con la faccia dipinta di nero. Il suo film del 1926 The Jazz Singer non solo è ricordato come il primo film sonoro della storia, ma narra proprio le vicende di un cantante «blackface». Jolson non era un razzista, anzi. Era un ebreo ed era convinto che neri e ebrei condividessero la stessa esperienza di discriminazione. La sua performance si inseriva in una tradizione che nasceva dallo schiavismo, ma fu una delle più rilevanti figure a schierarsi per l’emancipazione degli artisti neri, promuovendo la cultura musicale afroamericana e aprendo la strada ad artisti come Cab Calloway, Louis Armstrong o Duke Ellington. Col passare degli anni molte delle maschere dell’universo blackface sono confluite nel cinema, come la mammy di Via col vento, ma sono diventate pure la base di tanti pregiudizi razzisti ancora molto radicati. Curiosamente, l’ultimo acuto di questa scena si è avuto negli anni ’60, ma da questa parte dell’oceano con The Black and White Minstrel Show, un programma tv dell’inglese Bbc in onda, con ottimi riscontri di pubblico, fino al 1978 e che riproponeva diversi numeri musicali interpretati da attori bianchi con il volto dipinto di nero. Negli Usa gradualmente il ricordo di quel grottesco varietà razzista è stato rimosso, dimenticato o ricordato con disagio, il termine Jim Crow si usa solo per indicare l’epoca della segregazione. La storia del teatro blackface e dei Minstrel è archiviata nell’albero genealogico della cultura pop americana, ma la ferita da cui nacque rimane ancora aperta.