Tutti i generi, letterari e non, convergono nel caleidoscopio di Alasdair Gray
Proprio mentre durante la scorsa Biennale di Venezia l’acume, il coraggio e i volteggi di Bella Baxter, interpretata da Emma Stone, lasciavano basiti gli uomini che la circondavano sullo schermo e vincevano i favori del pubblico e della giuria, che di lì a poco avrebbe assegnato alla pellicola il Leone d’oro, le librerie italiane si preparavano ad accogliere la brillante traduzione di Sara Caraffini del romanzo ispiratore ed eponimo del film: Povere creature di Alasdair Gray (pp. 408, € 22,00). Un bizzarro tempismo che, indirettamente, premia Safarà, la casa editrice che da alcuni anni sta traducendo l’opera omnia del più eclettico e visionario fra gli scrittori della contemporaneità scozzese. Pubblicato nel mondo anglofono nel 1992, Povere creature attinge al bildungsroman, al racconto gotico, alla fantascienza, al realismo magico e al trattato filosofico, intercalando atmosfere fantasy e motivi vittoriani, inserti epistolari e carambolanti resoconti di viaggio in salsa Grand Tour, contraffazioni borgesiane e destini incrociati alla Calvino, per infine rivisitare il tutto in chiave parodica nell’ultima cornice, in cui Gray (1934-2019) si palesa come curatore di un manoscritto ritrovato (e di una missiva che lo sconfessa), fingendo di porre fine all’inaffidabilità dei narratori che si sono fin lì alternati.
La struttura caleidoscopica e la sovrapposizione di tessere storiche, cronachistiche e fittizie, mentre inglobano il ventaglio di forme letterarie diverse, sviscerano da vari punti di vista le vicende di una donna vissuta fra XIX e il XX secolo. Su uno di questi piani narrativi, che riguarda il manoscritto di Archibald McCandless, marito della protagonista, è in scena una donna incinta e abusata che, non riuscendo a conquistarsi altrimenti la propria libertà, tenta di suicidarsi gettandosi nel Clyde, il fiume di Glasgow. Ma il medico che le presta soccorso, Godwin, salva il corpo di lei e il cervello del feto, unendoli e dando vita a un epigono femminile di Frankenstein nonché, come mostreranno gli eventi successivi, del Candide volteriano. La sua mente ingenua e incontaminata da pregiudizi, paure e sensi di colpa permetterà alla donna di abbracciare sentimenti e piacere sessuale in modo a tratti sfrenato, sviluppando progressivamente una consapevolezza sulla condizione femminile che induce a leggere questo cruciale sottotesto e le implicazioni relative alla questione di genere come un’epopea femminista, ancorché goffamente veicolata da una sensibilità maschile, quella del marito, intrisa di stereotipi e mistica patriarcale. Forse non a caso, nelle corde di questa narrazione anche la militanza socialista della donna, negli anni della maturità, viene osservata con benevolente distacco. Su un altro piano narrativo i contenuti del manoscritto sono invece denunciati dalla stessa moglie del loro autore come mera invenzione, corrispettivo formale del comportamento di quegli amanti, mariti e padri inconsapevolmente rancorosi e incapaci di fare i conti con l’emancipazione femminile. Gray, ovviamente si guarda bene dallo sposare una delle versioni presentate. Anzi, la sua pseudo-ricerca di riferimenti storici e gli apparati di note che corredano il romanzo le avvalora tutte e finisce per suggerire l’impossibilità di realizzare un resoconto oggettivo. A prescindere dalle diverse prospettive, i dialoghi ruotano con insistenza attorno a grandi sistemi sociali, religiosi, epistemologici, dove la relatività della conoscenza umana non è mai semplice sfondo.
Oscillando fra tributo e invettiva nei confronti della propria città, Gray colloca Glasgow sulla mappa della cultura europea e della storia delle idee, recependo la lezione foucaultiana sull’archeologia del sapere e problematizzando i valori e i paradigmi irregimentati ideologicamente dalle diverse forme di potere: economico, politico, militare, di censo, di genere. Irragiungibile dunque non è solo la pretesa oggettività di ogni rappresentazione, ma qualsiasi visione soggettiva del mondo. A ben vedere, del resto, a indicare la relatività di ogni conoscenza è in primo luogo la struttura del romanzo. La geografia variegata dell’azione – dopo l’incipit scozzese la trama passa a avventure di respiro vittoriano che hanno luogo a Londra, Odessa, Alessandria d’Egitto, Gibilterra e la rive gauche parigina, per poi chiudersi circolarmente a Glasgow, epicentro labirintico delle numerose stratificazioni metanarrative – rispecchia le stravaganti incursioni in vari generi letterari, che riflettono i mutamenti di prospettiva. Ogni genere e ogni nuovo punto di vista apre un resoconto sorprendentemente diverso delle medesime vicende, con bruschi e radicali cambi di segno, spesso rafforzati (o forse, ironicamente indeboliti, proprio per la necessità di esibire conferme documentarie) da lettere, testamenti, estratti di giornale e testimonianze in tribunale.
Il viaggio in cui Gray e i suoi personaggi accompagnano il lettore è dunque principalmente una carrellata sui diversi patti di fiducia che si stringono nei romanzi come in qualsiasi altra forma di comunicazione. Di particolare interesse, in proposito, è il ricco apparato grafico realizzato dallo stesso Gray – già studente e poi docente presso la Glasgow School of Art – che alterna disegni in tinta gotica e illustrazioni anatomiche a prima vista arcaizzanti (evidentemente influenzate da Blake) ma che strizzano l’occhio alla controcultura underground e all’arte psichedelica, dando fiato alle anacronistiche sovrapposizioni di vittorianesimo e tecnologismo fantascientifico tipiche dello steampunk. Anche attraverso il codice delle immagini filtra il parteggiamento, a tratti cupo e a tratti ilare, di Gray per quelli che chiama i «miglioratori del mondo», in un romanzo che con ironia mai troppo tagliente sembra suggerire come non valga la pena di soffrire troppo in questa nostra messinscena, dove pretendere giustizia è da folli scriteriati o da ingenui che hanno perso la memoria.
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