Come sempre capita alla politica italiana, ma non solo a quella, situazione disperata, ma non seria. Premessa: un movimento, o un partito, qualche che sia, è un fatto sociale. Come tale lo plasmano chi l’inventa, chi lo dirige, chi lo abita, ma pure i suoi concorrenti: alleati e avversari. Il Movimento 5 Stelle è un fatto sociale assai complicato. L’ha inventato, per scherzo, o dileggio, un comico che aveva qualche motivo per odiare i partiti convenzionali. Forse non se l’aspettava, ma l’iniziativa ha avuto successo. Il consenso sulle piazze l’ha indotto ad avventurarsi sul terreno elettorale, con un numero crescente di voti. Li ha presi dapprima profittando degli arretramenti programmatici e del decadente costume politico del centrosinistra.

Ha quindi risucchiato un po’ di voti da destra: disorientati dal declino del berlusconismo e della Lega di Bossi l’hanno votato in parecchi. Se non che, il M5S non aveva alcun programma – tranne l’«odio» per la politica – né una leadership e un personale politico. Difficile immaginare una leadership più improvvisata di quella di Grillo (per un po’ di tempo contenuta da Casaleggio sr.) e una rappresentanza politica reclutata in maniera più sgangherata.

Almeno le forze politiche di centrosinistra avrebbero dovuto accoglierlo con una riflessione matura, che approfondisse le ragioni del fenomeno. L’hanno classificato come una degenerazione populista, non pure peggio della destra berlusconiana, leghista e, più recentemente, a guida Meloni. Anzi: il partito dell’odio della politica ha suscitato nel centrosinistra – è la pena del contrappasso – una folla di haters, che l’hanno demonizzato, senza provarsi né ad approntare un antidoto, rinnovando la loro offerta politica in funzione degli elettori che se n’erano andati, né a superare i pregiudizi e instaurare una qualche collaborazione. Impresa, quest’ultima, difficile, ma non irragionevole, come si è poi dimostrato.

Piuttosto, il Movimento, sopraffatto dopo le ultime elezioni da una responsabilità ben superiore alle sue forze, è stato indotto a stipulare un disastroso contratto di governo con la Lega, conclusosi, com’era inevitabile, in fallimento. Finché il Pd si è deciso ad azzardare un’apertura che ha condotto al governo rossoverde. In questo estremo disordine, il Movimento ha trovato una figura di riferimento in Giuseppe Conte. Prima arruolato per presiedere il governo con la Lega e poi confermato alla guida della coalizione col Pd. Si può discutere quanto si vuole il suo operato come presidente del consiglio. Fatto sta che i sondaggi hanno testimoniato un elevato apprezzamento nel corso della difficilissima prima fase di contrasto alla pandemia. È per questo apprezzamento che, una volta licenziato il governo col Pd (e con Italia Viva), Conte si è ritrovato alla testa del Movimento. L’impresa era improba. Una volta perso l’elettorato che era giunto da destra, perché la destra si era riorganizzata intorno a Salvini e Meloni, lui ha provato a riposizionarlo proprio sui temi che il Pd aveva abbandonati.

Poteva essere la premessa di una fruttuosa divisione del lavoro: l’hanno capito Zingaretti, Bersani, Letta e qualcun altro. Ma proprio questo ha sovreccitato gli haters del Movimento: il partito mediatico di Repubblica/Corriere e le microformazioni che si sono (abusivamente) indossano l’etichetta di riformiste. Che hanno capito che la manovra avrebbe spostato un po’ più a sinistra un’eventuale coalizione da opporre alla destra.

Conte non è un politico e non ha esperienza politica. Né pare attorniato da competenze in grado di sostenerlo. Si è ritrovato un Movimento senza progetto e con una rappresentanza parlamentare indisciplinata e resa nervosissima dalla prospettiva di essere definitivamente espulsa dalla scena politica. Non gli hanno dato tregua. Accanendosi su quelle poche misure che il Movimento iscrive a suo merito: reddito di cittadinanza in testa. Non ha nemmeno aiutato l’azione del governo Draghi, dove le componenti più sensibili alle difficoltà delle classi popolari e del Mezzogiorno sono state sistematicamente mortificate.

Conte ha fatto molte mosse sbagliate. Chi avrebbe fatto di meglio? Draghi, per parte sua, non ha mostrato gran capacità di mediare. Sarà perché difetta anche lui d’esperienza politica, sarà perché avverso alle misure richieste dai 5 Stelle. Alla fine, Conte ha compiuto la mossa che non si aspettavano nemmeno i suoi nemici più accaniti: preferivano seguitare a logorarlo.
La conclusione è che Draghi si è dimesso e le elezioni si avvicinano. Ad esser realisti, il Pd, se gli va bene, arriva al 25 per cento.

Un accordo coi soi-disant riformisti arriverebbe al 30 per centro. Gli haters illusoriamente ripropongono la vocazione maggioritaria di veltroniana memoria, ma il loro sogno è probabilmente una maggioranza Letta-Renzi-Calenda-Giorgetti. Mal che vada, per loro è un governo Meloni-Salvini è preferibile a un’intesa stabile coi 5 Stelle entro il centrosinistra. Saranno esauditi. Meloni e Salvini arriveranno al governo, combineranno un disastro, l’Europa che conta li punirà, il Pd dovrà un’altra volta dissanguarsi per rimediare, il conto toccherà agli italiani. Cos’abbia in mente il capo dello Stato non lo sappiamo. Ma l’uomo è accorto e ha ributtato la palla in campo. Potrebbe essere un’opportunità, se Draghi si mostrerà più incline a mediare e glielo consentiranno. Non è detto.