Tutte le parole per dire cinema
Recensioni Esce il primo volume del "Lessico del cinema italiano", un libro imprevedibile
Recensioni Esce il primo volume del "Lessico del cinema italiano", un libro imprevedibile
E’ uscito, per le edizioni Mimesis, il primo volume (ne sono previsti altri due) del Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, a cura di Roberto De Gaetano. Ventuno in tutto le voci del lessico. In questo primo volume troviamo, in ordine alfabetico, le prime sette: Amore (R. De Gaetano), Bambino (E. Morreale), Colore (L. Venzi), Denaro (M. W. Bruno), Emigrazione (M. Coviello), Fatica (F. Villa), Geografia (F. Zucconi), ognuna illustrata da una serie di venticinque esempi, che spaziano dal cinema muto ai nostri giorni.
L’intento è quello di disegnare le figure specifiche, o tipiche, d’un cinema come quello italiano, che pure non è mai stato “nazionale” nel senso ideologico del termine: un cinema però radicato nei corpi, permeato da un particolare “sentimento della vita”, che crea uno scarto rispetto alla società e alla storia. In che senso, in che modo?
Nell’introduzione, De Gaetano opera un confronto tra la vocazione (per così dire) del cinema italiano e quella del cinema americano, dal quale avrebbe ereditato il legame stretto tra cinema e vita – ma mentre il cinema americano ha colonizzato l’immaginario mondiale, divenendo il più potente veicolo di forme, comportamenti e modalità di vita sociale, il cinema italiano ha agito sugli interstizi, gli scarti e gli intervalli del sociale, su qualcosa, cioè, capace di eccedere la storia, nel ricordo di un’origine a-storica mai cancellata.
Il legame tra cinema e vita riguarderebbe dunque, nel cinema americano, la vita “politica” in senso lato, la collettività dei cittadini, il rapporto dialettico tra individui, gruppi e istituzioni – nel cinema italiano, la vita sarebbe invece nuda vita (nel senso di Agamben), retaggio d’un popolo da sempre refrattario a mettersi in uniforme (perfino il cinema del periodo fascista dovette prenderne atto). La stessa Resistenza, rappresentata a partire da Roma città aperta e Paisà, si può interpretare sulla base d’un sussulto d’intolleranza, da parte del popolo italiano, nei confronti di un’omologazione forzata unificante: corpi viventi, che rifiutano d’indossare una divisa, fosse pure solo metaforica – cosa che ha il suo risvolto negativo, se vogliamo, nella propensione al cinismo e al qualunquismo.
Questa vicinanza alla nuda vita, che rende difficile l’accesso alla modernità, dipende da lunghe vicissitudini storiche, ed era stato già evidenziato da Giacomo Leopardi nel “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani”. All’inizio della voce Amore, De Gaetano cita opportunamente parecchi passi del “Discorso”, dove si affermava come l’italiano risultasse alla fine il popolo “più filosofico” d’Europa, in quanto avvezzato, in maggior misura rispetto agli altri, alla cognizione-base di ogni filosofia, ossia alla cognizione della vanità di ogni cosa: “…il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno, incominciando da sé medesimo”. Anche se questo Leopardi giovanile non mancava di osservare che il disprezzo (anche verso di sé) e il sentimento della vanità della vita, sono i maggiori nemici del “bene operare”, aprendo il campo, nella vita sociale, all’indifferenza e allo scetticismo – con ciò, peraltro, impedendo a individui e gruppi sociali di cadere vittime della malattia opposta, ossia del fanatismo, della cieca dedizione a scopi che possono anche essere aberranti.
Nel “Discorso”, Leopardi chiama “società stretta” (nel senso di compatta e coesa) quella in grado di legare i suoi appartenenti secondo vincoli, radicati nel costume, d’onore e fiducia reciproca. Nella società italiana, ammessa la sua esistenza, egli invece non riscontrava altro che l’assunzione di abitudini, che sono cosa ben diversa dal costume, spesso derivanti dal conformismo più ottuso e pigro. La “società stretta”, sia pure fondata su illusioni, è dunque anche premessa di civismo e libertà, mentre gli italiani hanno avuto sempre a che fare con regimi repressivi e asfittici (“stretti” in senso negativo), dai quali bisogna salvarsi rifugiandosi nel privato.
Perfino il tentativo fascista di istaurare una società “stretta” in senso autoritario non riuscirà a farsi costume, fallirà, come avrebbe constatato anche Pasolini. Il che significa però, come sottolinea De Gaetano a proposito del melodramma, che almeno fino agli anni ’50 il nodello “chiuso”dell’amore familiare stesso (cfr. per esempio Catene di Matarazzo, col duo allora popolarissimo Nazzari- Sanson) poteva essere messo facilmente in crisi dall’irruzione di qualunque elemento perturbante proveniente dall’esterno (o dal passato). L’omologazione, semmai, avrà luogo con l’avvento del consumismo e del falso permissivismo, negli anni ’60 del Novecento.
Se dunque in Italia, si è fatta retorica fino alla nausea in campo politico come in campo letterario, non è mai mancato, specie a livello popolare, il contravveleno della satira irridente. C’è tutta una tradizione delle cosiddette pratiche basse ( a base di comicità “volgare”, doppi sensi e lazzi più o meno osceni) che risale almeno alla commedia dell’arte, si è conservata a lungo, ha esercitato la sua influenza perfino su certe manifestazioni della religiosità popolare e poi sulle pratiche avanzate della riproducibilità tecnica, prima di tutto sul cinema. Il “basso” si deposita, sedimenta, sfugge ai controlli, ai filtri e alle sublimazioni. I suoi echi sono capaci di farsi sentire anche in molte delle cosiddette “opere d’autore” – in Rossellini come in Fellini, per esempio: in Viaggio in Italia, lo scoppio improvviso di un eccesso di religiosità popolare è capace di trascinare verso la riconciliazione i sentimenti d’una coppia che sembrava irrimediabilmente in crisi; Fellini, nello Sceicco bianco, descrive l’infatuazione per un eroe dei cine-romanzi o, nei Clowns, si rivolge a una rivisitazione delle vecchie pratiche circensi. Tutto ciò non ha impedito al cinema italiano di essere (o piuttosto di essere stato, purtroppo) quel “grande cinema” di cui parlava Godard, evitandogli, proprio nella vicinanza alla vita, la grama sorte toccata per esempio, fatte le debite eccezioni, al teatro e al romanzo.
E’ giusto tornare a sottolineare, in tutto questo, l’importanza del melodramma, nella sua accezione musicale e nei suoi risvolti cinematografici. Che rapporto può esserci tra i lazzi fescennini della commedia dell’arte (o dell’avanspettacolo, del circo, del varietà) e le lacrimose vicissitudini di eroi ed eroine del melodramma?
Un tentativo di risposta indurrebbe a formulare la categoria dell’eccesso: eccesso di gesti, di sentimenti, di atteggiamenti, di lacrime. Come se non si potesse credere a uno stato d’animo, se non sottolineandolo adeguatamente. Anche questo, in fondo, è un risvolto della propensione all’indifferenza.
Dei ricchi e variegati percorsi delineati da ciascuna voce, che partono tutti da un film recente assunto come emblematico, per inoltrarsi all’indietro al periodo del muto e tornare poi ai giorni nostri attraverso libere scorribande, qui non è possibile citare altro che le tappe principali.
Così, De Gaetano parte da Io e te di B. Bertolucci, per risalire all’Assunta Spina del 1915 (G. Serena) e toccare successivamente film come Viaggio in Italia, La dolce vita, La notte ecc. (voce Amore). Emiliano Morreale traccia una sorta di passaggio tra la prospettiva propriamente “infantile” (Germania anno zero, Sciuscià, Bellissima, Il ladro di bambini ecc.) e l’indagine sulle inquietudini adolescenziali, tipo Corpo celeste della Rohrwacher (voce Bambino). Luca Venzi prende avvio dalle accensioni cromatiche violente dell’inizio di Gomorra (M. Garrone), per poi compiere un excursus sull’uso del colore nel cinema muto, e man mano ricordare Senso, Deserto rosso, La ricotta ecc. (voce Colore). Marcello Walter Bruno, invece, parte dalla pioggia di denaro del Caimano di Nanni Moretti, e segue poi, dopo una scorribanda sull’economia autarchica (anni ’30), i personaggi rampanti del boom economico, con un’occhiata verso le scelte diverse in direzione della povertà francescana (voce Denaro). Massimiliano Coviello evidenzia il passaggio dalle dinamiche dell’emigrazione (Fuga in Francia di Mario Soldati, Il cammino della speranza di Germi) a quelle dell’immigrazione, di cui Lamerica di Amelio si pone come emblema (voce Emigrazione). Federica Villa esamina il concetto di fatica nel triplice senso di lavoro (con un occhio particolare al lavoro femminile – vedi Roma ore 11 di De Santis), forza (gli Ercole, i Maciste) e sofferenza (voce Fatica). Francesco Zucconi parte da Noi credevamo per una scorribanda filmica tra elementi naturali e punti cardinali diversi (voce Geografia).
La forma-lessico, del tutto nuova se applicata a un’intera cinematografia, induce, in un certo senso, a porre sullo stesso piano grandi film memorabili (di Rossellini, Visconti, De Sica, Antonioni, Pasolini, Bertolucci ecc.), accanto ad altri che risultano significativi principalmente sul piano del costume (è il caso per esempio di molti titoli del neorealismo “rosa” o della commedia all’italiana). Viaggio in Italia, allora, può trovarsi a convivere, nella stessa voce o in voci diverse, con Due soldi di speranza o con I soliti ignoti – ma l’importante , in questi casi, è che le forme di rappresentazione evochino con sufficiente completezza le relative “forme di vita”. Ed è impressionante constatare come ci riescano, malgrado l’apparente handicap, già rilevato da Godard, dell’assenza quasi generalizzata di suono registrato in diretta con le immagini. Vuol dire, sostiene Godard, che le immagini hanno incorporato, in qualche modo, “la lingua di Ovidio e Virgilio, di Dante e Leopardi” – il che significa, poi, che ne hanno preso il posto, sostituendola in parte, un po’ come il melodramma musicale aveva preso in Italia, nei secoli precedenti, il posto del romanzo.
Le immagini al posto del linguaggio, allora? Il cinema italiano avrebbe attuato su larga scala, e con molto anticipo, una sorta di adieu au langage, o una sua messa tra parentesi, analoga a quella di cui ora parla lo stesso Godard? E l’avrebbe attuata sulla base di una carenza di ordine tecnico? In proposito, tutti i dubbi sono leciti – ma restano le suggestioni di immagini sempre eloquenti per quanto in qualche modo sempre “mute”, e l’impatto di un’impresa come questo lessico, che ne ripercorre le tappe, evocandole con appassionata attenzione.
Qui siamo solo al primo volume – ma già pregustiamo, da parte nostra, l’annunciato avvento dei successivi.
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