Grande stupore e commozione lo scorso 25 giugno al Teatro alla Scala per il debutto della nuova produzione di Turandot, che prosegue le celebrazioni per il centenario pucciniano iniziate lo scorso aprile con la messa in scena de La rondine. Lasciata incompiuta alla morte del compositore nel 1924, Turandot approdò sulle scene scaligere nel 1926 con la direzione di Arturo Toscanini e il finale composto da Franco Alfano; alla prima Toscanini decise però di interrompere la rappresentazione alla morte di Liù, dicendo: «Qui finisce l’opera perché il Maestro è morto». Anche nella produzione attuale, prima del finale di Alfano, lo spettacolo si ferma in quel punto per un istante di silenzio, mentre sull’enorme e ipnotica luna in 3D ideata dal regista Davide Livermore con gli scenografi Eleonora Peronetti e Paolo Gep Cucco appare il volto di Puccini e gli spettatori accendono dei lumini consegnati loro durante il secondo intervallo. Lo struggimento della perdita (dell’uomo e di parte dell’opera) si assomma alla magia dello spettacolo, che ha il tema della perdita al centro: perdita dello status per Calaf e Timur, re e principe tartari spodestati, perdita della libertà per Turandot, principessa che ha fatto dell’inviolabilità la sua ragion d’essere, perdita della vita per Liù per amore di Calaf.

IL CORTOCIRCUITO è evidente (Puccini è morto subito dopo avere composto la scena della morte di Liù) e Livermore, da abile uomo di teatro, non se l’è lasciato scappare, così come non si è lasciato scappare gli aspetti fantasmagorici di una trama che è prima di tutto una «fiaba» (quella di Carlo Gozzi cui si ispira il libretto). La messa in scena ideata da regista e scenografi insieme ad Antonio Castro (luci) e D-Wok (video) è letteralmente una macchina barocca dove ogni componente fisica è parte di un progetto oltrefisico che ha come fine lo stupore, l’incanto, la meraviglia, come le lanterne magiche, i diorami, gli zootropi tanto in voga alla fine dell’Ottocento, quando Puccini era ragazzo, e come il cinema, che di quei dispositivi è erede e che negli anni Venti del Novecento è in uno dei suoi momenti di massima espansione.

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PER LIVERMORE, lo sappiamo da tempo, cinema e opera sono quasi perfettamente sovrapponibili, dunque, come si fa col cinema, non spoileriamo nulla sulla messa in scena, zeppa di sorprese che devono essere preservate. La direzione musicale è affidata a Michele Gamba, che con Livermore ha collaborato alla vanitas pandemica A riveder le stelle e che, finalizzando l’esecuzione della partitura al finale chiassoso di Alfano, prende le distanze dall’esecuzione astratta e proiettata avanti nel Novecento di Riccardo Chailly del 2015 per recuperare carne e sangue, masse e volumi, in una cornice primonovecentesca che evoca sapori mahleriani e stravinskiani, aiutato dalle performance sbalorditive di Anna Netrebko (Turandot) e Yusif Eyvazov (Calaf), rare per carnalità, voluminosità, colore ed estensione. Delicatissima Rosa Feola nel ruolo di Liù. Repliche fino al 15 luglio.