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Tunisia: le manette all’informazione

Tunisia: le manette all’informazione

Testimonianza E' un errore dare per sepolta la Rivoluzione del 14 gennaio

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 24 settembre 2013

Tre giorni fa ho appreso con angoscia dell’arresto di un amico tunisino, il cineasta Nejib Abidi, e di altri/e 7 giovani artisti/e impegnati/e. All’alba del 21 settembre la polizia ha fatto irruzione in casa di Nejib e con lui ha arrestato Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, nonché due amiche artiste e attiviste.

Ho conosciuto Nejib e i suoi compagni a Tunisi, dove mi avevano intervistata sulla vicenda, tragica e oscura, dei giovani tunisini partiti in mare alla volta di Lampedusa nel marzo del 2011 e scomparsi nel nulla.Vicenda sulla quale intendevano realizzare un documentario. L’avevo poi ritrovato a Roma: era venuto in Italia, insieme ad altri, a cercare tracce e testimonianze sui dispersi.

Un comunicato di solidarietà con gli otto arrestati, del 22 settembre, redatto da un gruppo di attivisti che fa riferimento a Radio Chaabi (fondata dallo stesso Nejib), informa che il giorno prima dell’arresto qualcuno si era introdotto in casa a rubargli i due hard disk contenenti i rush del documentario e aveva cancellato irrimediabilmente i dati del secondo. Nejib –continua il comunicato- era «apparso in pubblico l’ultima volta durante le manifestazioni in sostegno di Jabeur Mejri e Nassredine Shili, produttore del suo film».

Ricordo che Mejri è uno dei due giovani di Mahdia che nel 2012 furono condannati (il secondo, Ghazi Béji, in contumacia) a ben sette anni e mezzo di carcere per aver postato su Facebook testi e immagini reputati blasfemi. E Shili, attore e regista, è in prigione per il lancio di un uovo contro il ministro della Cultura, il laico Mehdi Mabrouk, un tempo sociologo delle migrazioni e oppositore del regime benalista, del quale ha sempre denunciato la politica liberticida, è oggi zelante esecutore della linea repressiva del governo dominato da Ennahda, il partito islamista. Nel contesto della grave crisi politica conseguente agli assassini premeditati di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – leader dell’opposizione e dirigenti del Fronte popolare -, si è intensificata la caccia alle streghe contro chiunque pretenda di esprimersi, comunicare, informare in modo libero, indipendente, non-conformista: femministe (a cominciare da Amina «Tyler» Sboui), rapper, graffitisti, artisti di strada, blogger, giornalisti anche ben noti come Zied el-Heni, perfino proprietari di tv non addomesticate. I più tratti in arresto in modo del tutto illegale, imputati con accuse grottesche, sottoposti a processi-farsa da una magistratura che niente sembra avere di indipendente. Nel caso di Nejib e degli altri sette, finora, si scrive nel comunicato, «non è stata fornita alcuna ragione ufficiale che giustifichi il loro arresto e la loro detenzione» e si ignora «il luogo dove sono stati condotti e il loro stato di salute».

Anche in questo caso c’è da confidare nella risposta della società civile tunisina, perché gli otto siano presto liberati. Non è una fiducia infondata: il 17 settembre scorso, per protestare contro l’intensificarsi della repressione e i tentativi crescenti d’imbavagliare l’informazione, il sindacato nazionale dei giornalisti insieme con il sindacato della cultura e dell’informazione dell’Ugtt aveva promosso uno sciopero generale riuscito al 90%.

È questa diffusa reattività sociale che ci fa ritenere sia un errore dare per sepolta la Rivoluzione del 14 gennaio. È vero: la Tunisia attraversa oggi la fase più difficile della transizione, segnata da una gravissima crisi politica, che sembra irresolubile e in più si accompagna con un’altrettanto grave crisi economica e sociale. Nondimeno lo spirito della rivoluzione non sembra affatto morto, come testimoniano Nejib Abidi e i tanti giovani e meno giovani attivisti e attiviste che ogni giorno lo vivificano, quello spirito, con la parola, l’arte, la performance, la lotta.

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