Visioni

«Tully», realismo fantastico nella routine di provincia

«Tully», realismo fantastico nella routine di provincia

Cinema Al Sundance la proiezione a sorpresa della nuova collaborazione tra Jason Reitman e la sceneggiatrice Diablo Cody

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 28 gennaio 2018

«Pochi si rendono conto dell’impatto che la differenza di classe può avere nell’esperienza di crescere dei bambini. Ho amici a LA che continuano a dirmi che fare figli è una passeggiata –perché siete dei dannati miliardari, è la mia risposta. Il fratello della protagonista del mio film ha una famiglia da cartolina: moglie perfetta, elegante, riposatissima, tre bambini d’oro che a malapena si vedono – ma sono carichi di soldi!». A parlare è Diablo Cody, affilatissima sceneggiatrice chicagoana, che nelle sue storie al femminile mai dimentica il Midwest operaio dove è cresciuta – il paesaggio geografico e sociale che forma (e contro la cui implacabilità si frantumano) i sogni dei suoi personaggi, come la magnifica dark lady rottamata, Mavis, scrittrice per ragazzini in Young Adult, o la rockettara triste interpretata da Meryl Streep nell’ultimo film di Jonathan Demme, Dove eravamo rimasti.

Cody era a Park City per la proiezione sorpresa (sezione Premiere) della sua ultima collaborazione con Jason Reitman (regista dei suoi copioni Juno e Young Adult). Il film è Tully, un altro sfumatissimo, dolce/amaro squarcio di donna che si snoda come in un’evoluzione naturale da Young Adult parallela (lascia intravedere Cody) almeno in parte anche alla biografia della sceneggiatrice. La continuità dei personaggi è accentuata dal ritorno di Charlize Theron nel ruolo centrale.

Non è più una beauty queen che riappare con orrore nella provincia da dove era fuggita, ma la mamma stanchissima di due bambini (uno con problemi caratteriali), che ne aspetta un terzo non previsto. Nel vivido linguaggio tipico di Cody, Marlo sforna sorrisi di caustica circostanza e definisce la nuova gravidanza «una benedizione». Poi però quando incontra l’ex compagna di scuola artista, magrissima, che vive ancora nel loft newyorkese dove stava anche lei prima che la vita prendesse la deprimente piega suburban, ammette di sentirsi «come quella chiatta carica di spazzatura che negli anni ottanta avevano ancorato davanti a Brooklyn».

Rinunciata anche la più piccola traccia di glamour, Theron si muove nell’inquadratura come una balena sonnambula, con il sorriso stanco. Avvolta in una vestaglia azzurrina, che la fa sembrare ancora più informe, serve pizza e verdure surgelati per cena e, quando è finalmente riuscita a mettere tutti a letto, si distrae con un reality porno. Affettuoso quanto disinteressato, suo marito va letto presto per giocare ai videogame.

La variabile in questa routine da incubo arriva quando il fratello ricco e con famiglia da spot pubblicitario (nessuno piange, nessuno picchia l’altro, la mamma sembra sempre appena uscita da una spa), subito dopo il parto, le regala una «balia notturna», e cioè un’infermiera specializzata che si occupi del neonato durante le notte, in modo che Marlo dorma. Dopo un po’ di resistenza lei cede e la chiama.

Tully (che ha il volto stranissimo, ipermobile, e la corporatura tutta angoli di Mackenzie Davis) non ha nulla del tipo «balia»: è giovane, piena di idee, energia e di storie. Appare alla sera, quando il resto della famiglia è già di sopra e Marlo sta abbioccandosi davanti al porno serial –devo occuparmi anche di te, le dice dolcemente, togliendole il neonato dalle braccia. Poi la manda dormire, dove la mamma sfibrata sognerà sirene in un mare blu e profondo. Al mattino quando tutti scendono si è già dileguata, ma la casa è misteriosamente pulita e sul tavolo della cucina appaiono piatti di succulente cupcake. «È come se avessi ricominciato a vedere i colori», si felicita Marlo dell’esperimento. Tutto sembra andare per il meglio, ma Diablo Cody non ama le soluzioni facili, o edulcorate –dietro a Tully c’è un segreto che, affettuosamente, arditamente, sposta il film nel realismo fantastico.

Fantasy –almeno per ora – anche in Assassination Nation di Sam Levinson (è il figlio di Barry), il «film caso» di questo Sundance anche perché è stato venduto per 10 milioni di dollari all’etichetta indipendente Neon. Di tutti i film diretti da o su donne, questo The Purge riletto alla luce di #metoo e dell’ hackeraggio russo delle elezioni è il più complicato e incandescente, anche quando si avvita su se stesso. Non a caso, le reazioni sono state miste e il festival, invece del concorso, lo ha relegato a mezzanotte, insieme all’interessante fiaba sadomaso di Nic Pesce, Piercing e a Lords of Chaos, di Jonas Akerlund, sulla sanguinosa storia della band di black metal norvegese Mayhem, con appassionate interpretazioni di Rory Culkin e Jack Kilmer.

Levinson deve il suo film a una lunga tradizone di teen exploitation movies americani e giapponesi, a Roger Corman, Wes Craven e a Halloween. Le giovani attrici Odessa Young, Suki Waterhouse, Hari Nef, Abra e Bella Thorne sono una posse di liceali che vivono a cavallo tra realtà e vitual reality in una nebbia di selfies, text, tumblr, alcol e stupefacenti vari in una Peyton Place del terzo millennio che si chiama Salem. Il riferimento alle streghe ci sta visto che, quando un hacker posta su internet i segreti e le comunicazioni digitali di mezzo paese -dal sindaco al preside al vicino di casa- e con esse le intimità e le vergogne di un mondo troppo piccolo e troppo represso, Salem si trasforma in una Tombstone di vigilantes fascisti e mascherati, e le ragazze diventano oggetto della caccia.

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