L’ultima preda sembra essere il Napoli,ma la proprietà De Laurentiis avrebbe rifiutato (per ora) diverse offerte da fondi arabi e americani. La polaroid del calcio italiano scattata a pochi giorni dal via del campionato è assai diversa da dieci, ma anche cinque anni fa. È praticamente sparita la figura dell’imprenditore-padrone di una società – il Napoli rappresenta forse l’unica eccezione -, dilagano i fondi di investimento. Qualche settimana fa, dopo le celebrazioni per lo scudetto arrivato dopo dieci anni di attesa, il Milan è stato venduto per oltre 1,3 miliardi di euro a Red Bird, private equity americano di scena a Milano con una trattativa lampo, sfilando la società al fondo Investcorp, dal Bahrain, che ora è una delle opzioni sul tavolo del presidente del Napoli (e della FilmAuro), con prima offerta, come riportato da diverse testate specializzate, da 650 milioni di euro.
Il patron del Napoli vuole molto di più, un miliardo è l’asticella posta per la trattativa e non è improbabile che si faccia avanti qualche gigante del private, perché il calcio italiano piace parecchio, seppur in crisi di moneta e risultati e ancora non attraversato da una serie di riforme – quella sugli stadi, per esempio – che gli impediscono di tornare competitivo. A inaugurare il 2022 dei fondi americani ci ha pensato lo scorso febbraio, Stephen Pagliuca presidente del fondo Bain Capital, un colosso che gestisce investimenti per 155 miliardi di dollari in gni angolo per mondo, e azionista dei Boston Celtics, storica franchigia Nba, ha rilevato il 55% delle azioni dell’Atalanta in mano alla famiglia Percassi.

NEL CORSO degli ultimi dodici mesi il Genoa, retrocesso in Serie B, è finito al fondo americano 777 Partners. Sempre nel campionato cadetto, fresco l’accordo che ha portato la famiglia Krause al Parma, poi l’avvocato Joe Tacopina (ex investitore al Catania, Venezia) che si è regalato la Spal, poi il finanziere Robert Platek allo Spezia. Qualche mese prima si sono presentati i Friedkin – titolari di una rete di concessionarie di auto negli Stati uniti – che hanno staccato un corposo assegno per prendersi la Roma da James Pallotta, investendo per ora 370 milioni di euro nel club, portando nella capitale prima Mourinho, ora Dybala. E prima ancora dei Friedkin, il gruppo che al momento forse si è integrato meglio nel tessuto del calcio italiano, in simbiosi emotiva con la piazza romana, c’è stato l’arrivo di Rocco Commisso, colosso dei media negli Stati uniti, alla Fiorentina. Nello stesso tempo il fondo Elliott ha acquisito il Milan, con l’obiettivo in buona parte raggiunto di risanare i conti, portarlo di nuovo al vertice italiano (è arrivato il tricolore), per poi rivenderlo con margine di profitto, come è avvenuto da qualche settimana.

SONO DUNQUE dieci al momento le proprietà americane nel calcio italiano, poi ci sono imprenditori con quote di minoranza in società minori – ma con un passato glorioso alle spalle – come Ascoli e Campobasso. Per gli americani soprattutto, rappresenta un affare, un’occasione addirittura rispetto all’acquisto di franchigie della Nba o nella Nfl, che costano almeno il triplo, se non di più. In un’intervista al Financial Times, Platek, dirigente senior di MSD Capital e patron dello Spezia, il calcio italiano sarebbe ancor oggi uno dei tornei «più entusiasmanti al mondo». Nell’analisi del quotidiano britannico, lo status della Serie A e la fanbase in crescita in Nordamerica e Asia sarebbero una calamita per i fondi americani, nonostante l’arretratezza degli stadi, la difficoltà a realizzare strutture moderne (anche per i processi tortuosi nella burocrazia italiana) e la grave situazione debitoria di numerosi club.
Uno dei fattori decisivi per l’appeal della Serie A sui fondi americani e arabi è sicuramente il capitolo della cessione dei diritti televisivi. L’ultima offerta recapitata alla Lega calcio è da 270 milioni di euro dall’Arabia Saudita per i diritti tv della Serie A, oltre 140 garantiti in cinque anni, fino a 180 in base agli ascolti.
Un salvagente, un appiglio in arrivo dai sauditi. Un pacchetto di milioni per un accordo di cinque anni appunto, molti presidenti erano indecisi perché l’appeal della A potrebbe – potenzialmente – crescere nel futuro a medio termine, ma quei soldi fanno gola, i bilanci fanno acqua da tutte le parti. Ma il prodotto è assolutamente poco valorizzato, avrebbe potuto avere senso la costituzione di una newco ad hoc per le trattative sui diritti tv, idea della scorsa estate, formata dai presidenti della A, con cessione di una fetta al private equity. Progetto mai partito, nel frattempo sono emersi i dati su quanto incassa la Premier League dalla vendita dei diritti tv all’estero: 6,1 miliardi di dollari, dieci volte il fatturato della A, circa 2,6 miliardi solo dagli Stati uniti nei prossimi anni. Certo, la Premier è la Premier, è la giostra delle emozioni dei gol, delle partite intense, spettacolari, con il pubblico sempre presente, anche se i biglietti sono cari, carissimi.

Uno dei fattori decisivi per l’appeal della Serie A sui fondi americani e arabi è sicuramente il capitolo della cessione dei diritti televisivi. L’ultima offerta recapitata alla Lega calcio è da 270 milioni di euro dall’Arabia Saudita per i diritti tv della Serie A, oltre 140 garantiti in cinque anni, fino a 180 in base agli ascolti.

MA DOPO aver invaso anche la Premier, perché gli americani sono al Manchester United (famiglia Glazer), al Liverpool (Fenway Sports Group, che comprende l’ex patron della Roma, James Pallotta e la star Nba Lebron James), i fondi a stelle e strisce pensano al campionato italiano anche perché diversi club necessitano di stadi nuovi e funzionali. Nuovi stadi e speculazioni edilizie incombenti in un progetto di ristrutturazione edilizia di zone, quartieri, così da rientrare dell’investimento e generare profitti a tante cifre.
Un altro tassello che completa il pacchetto Italia per gli investitori americani è il costo relativamente basso dei club di Serie A. Le cifre dicono tutto, il Milan, pedigree europeo di prim’ordine con sette Champions League, è costato quasi cinque volte in meno rispetto al Chelsea passato da Roman Abramovich al magnate americano dei media Todd Boehly. Il prezzo dei Blues, quasi cinque miliardi di euro nonostante Abramovich fosse obbligato a cedere la sua creatura per i beni confiscati nel Regno Unito dall’amministrazione Johnson, rende l’idea del valore della Premier ma anche dei margini di crescita del pallone italiano, se dovesse uscire dalla spirale di crisi, tecnica ed economica, da cui è avvolto da più di un decennio. L’obiettivo è ritrovarsi un asset di proprietà in un torneo che cresce di valore.