Visioni

«Tu me abrasas», il piacere del testo e l’ambiguità del cinema

«Tu me abrasas», il piacere del testo e l’ambiguità del cinemaUna scena da «Tu me abrasas»

Matías Piñeiro Conversazione col regista argentino intorno al suo nuovo film, ispirato ai «Dialoghi con Leucò». Cesare Pavese, Saffo e Britomarti, la Bolex, le note a piè di pagina

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 5 aprile 2024
Matias Piñero

Nei giorni della Berlinale, lo scorso febbraio, come tutti i registi argentini presenti al festival anche Matías Piñeiro era tornato più volte sulla cancellazione dei finanziamenti pubblici in Argentina e sulla chiusura dell’Incaa, l’Istituto nazionale dell’audiovisivo argentino, fra le istituzioni più importanti in campo cinematografico e non solo dell’America latina, che il neo presidente populista Milei aveva promesso per tutta la sua campagna elettorale. «La nostra libertà di artisti, la realizzazione di opere che hanno dato la possibilità al nostro cinema di affermarsi anche a livello internazionale, di seguire una ricerca su più strade e in diverse direzioni è stata garantita dall’Incaa. Se questo supporto verrà meno non sarà più possibile lavorare» aveva detto il regista argentino, quarantenne, nome di punta nelle giovani generazioni cinematografiche del Paese. Poco dopo Milei ha attuato le sue minacce nonostante le proteste di un’industria che ha al suo attivo una produzione di 204 lungometraggi (dati del 2022) e impiega almeno 700000 persone, nominando alla guida dell’Incaa Carlos Pirovano, un manager della finanza vicino al governo. Il quale appena insediato ha subito annunciato licenziamenti di massa nell’istituzione, la chiusura delle piattaforme che permettevano l’accesso al patrimonio audiovisivo nazionale, la privatizzazione della scuola di cinema – l’Enerc – e dei festival più importanti del Paese, come Ventana Sur, il maggiore mercato del film del Continente, e Mar del Plata. «È stata l’ennesima conferma della politica di questo governo che applica un neoliberismo senza scrupoli con la devastazione di tutto ciò che reputa superfluo, cultura in testa» dice Piñeiro. Nel frattempo è in viaggio col suo nuovo lavoro presentato dopo Berlino (Encounters) nel concorso di Cinéma du Reel – sarà presto a più riprese anche in Italia.

Tu me abrasas, Tu mi bruci, è ispirato ai Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, e in particolare a quello fra la poetessa Saffo e la ninfa Britomarti (Schiuma d’onda) che si incontrano in riva al mare e discutono di amore e di morte; un saggio o un poema visivo nel corso del quale la figura della poeta si intreccia a quella dello stesso Pavese, in un gioco di frammenti e di corrispondenze, anche nella concordanza dei suicidi delle figure evocate dal film. La regia crea una grana densa e leggera che coinvolge lo spettatore e stabilisce un senso di contemporaneità nelle incarnazioni temporanee di Saffo e di Britomarti, e nei paesaggi fra Italia, New York, Spagna, Grecia.

Cosa ti ha portato a Cesare Pavese dopo una serie di film sulle figure femminili di Shakespeare?

Per primo Antonioni, film come Le amiche, che era ispirato a Tre donne sole di Pavese; e poi il lavoro di Straub e Huillet. Quando ho iniziato la lettura dei Dialoghi con Leucò mi è sembrato subito un testo molto complesso, impossibile poterlo tradurre in immagini. Finché non ho scoperto Schiuma d’onda, quel capitolo era all’opposto e dialogava col lavoro che avevo fatto in precedenza su Shakespeare dove non era tanto il teatro il centro ma la lettura del testo, il piacere e la gioia che questo suscitava. Le pagine si aprivano come un nuovo mistero, con l’attrazione e la resistenza di cui ho bisogno per girare. Ho cominciato a pensare come renderle magnetico, in che modo dargli delle immagini, dei suoni, e grazie a Saffo sono arrivato alla frammentazione. Per me appunto la questione non è adattare un testo ma cercare il legame che ha col cinema, capire come un monologo o un dialogo diventano paesaggio, movimento. In questo caso il punto di partenza sono state le note a piè di pagina: in che forma il cinema può restituirle?

Il governo Milei sta attuando i tagli annunciati al settore cinematografico. Cosa accadrà?

Non è solo il cinema ma tutta la cultura a essere colpita, l’editoria, il teatro, ci sono tagli per ogni finanziamento. Nel mio caso non ho mai utilizzato i fondi cinematografici in modo diretto ma se posso essere indipendente è perché c’è un sistema che mi garantisce, che mi dà l’opportunità di lavorare, e che è necessario per sostenere questa libertà creativa. Francamente speravo che quel folle di Milei non vincesse, è stata una sorpresa. Adesso la struttura politica del nostro Paese deve tenerlo a bada e proteggere la democrazia.

Tornando al film, la poesia incontra la scienza, le immagini si ripetono, le note a piè di pagina rivelano nuove narrazioni. Cosa ti ha guidato fra queste suggestioni?

Ho sempre mantenuto l’idea di un film che fosse in qualche modo da leggere, cercando di essere semplice nonostante ci sia dietro un grande lavoro. Come dicevo volevo mostrare il piacere che c’è nell’esperienza di leggere questo testo, e la Bolex è stata una grande alleata: mi poneva dei limiti specie all’inizio delle riprese che mi hanno permesso di trovare un senso alla regia. Il montaggio è stato fondamentale. Gérard Borras, il montatore, che avevo conosciuto alla scuola di cinema di San Sebastian, anche se non avevamo mai lavorato insieme, mi ha mi ha permesso di portare avanti le mie idee. Il montaggio con lui è stato molto chiaro, e per me è sempre incoraggiante quando qualcuno ha una visione netta di ciò che hai filmato. Anche se lavoro sempre con una equipe ristretta ho bisogno di collaboratori, di questo scambio, di questo dialogo.

Nei tuoi film la narrazione segue vie impreviste, mai lineari.

Il riferimento qui è un po’ la metamorfosi, in chiave letteraria e anche all’interno delle immagini stesse per costruire una narrazione che sia alternativa a quella abituale. Quando ho in mano la camera cerco dei momenti di attenzione e di tensione, mi piace per esempio immaginare che le ragazze nel film sono la stessa e molte, che mutano appunto. Si tratta di trovare figure che offrono paradossi, che aprono a qualcos’altro. E di partire da immagini costruite culturalmente per rimetterle in circolazione e farle scontrare un po’, confonderle, frantumarle. Perché non esiste una sola visione e questo mare, visto in un certo modo, è un segno di morte, ma anche un segno di vita. Non c’è l’uno o l’altro. E nell’iridescenza delle immagini non c’è un solo colore. Vorrei che nel XXI secolo il cinema possa riscoprire una certa ambiguità dell’esperienza.

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