A volte, dai disastri naturali nascono nuovi mondi. È la storia che ci narrano gli tsunamiishi, quelle rocce porose e aliene che rotolano sulla terra per caso, spinte in superficie dagli abissi dell’oceano in seguito a una catastrofe inaspettata, che finisce per sovvertire l’ordine delle cose. In Giappone sono abituati a questi «spostamenti» di esistenze. È nel dna del loro arcipelago accogliere «presenze» che ridisegnano i confini, cambiando i connotati al paesaggio. È accaduto anche con il terremoto e il devastante tsunami del 2011, in cui all’esplosione della natura si è aggiunta quella nucleare.
L’artista Moyoyuki Shitamichi – insieme a un compositore, un antropologo e un architetto – è partito da qui per dispiegare la sua mitopoietica personale all’interno del padiglione giapponese, nel percorso ai Giardini della Biennale d’arte del 2019. Lo ha fatto in quel Cosmo-Eggs (a cura di Hiroyuki Hattori, commissario The Japan Foundation) che riconsegnava al pianeta una seconda possibilità di rinascita.
«Ho iniziato nel 2015 la mia serie degli tsunamiishi, le pietre scaraventate a riva dal maremoto – ha raccontato Shitamichi -. Inizialmente procedevo da solo, ma dopo il contatto con il curatore e la decisione che proprio quelle rocce sarebbero state protagoniste dell’installazione, insieme agli altri abbiamo viaggiato nelle varie isole di Okinawa. L’opera originaria si è arricchita così del contributo di tutti, trasformandosi in qualcosa di nuovo. Le pietre dello tsunami hanno ispirato il compositore Yasuno che ha campionato il canto degli uccelli, l’antropologo che ha raccolto e riformulato miti e leggende locali, l’architetto che ha organizzato lo spazio espositivo».
D’altronde, l’idea di forme di vita integrate che si auto-rigenerano, dando luogo a una inedita ecologia, è anche il fulcro concettuale sotteso a quel Cosmo-Eggs, che accoglie i visitatori negli spazi rimodellati ad hoc e che impernia la riflessione del curatore Hattori sulle «distorsioni del progresso», proprio guardando gli oceani.

Padiglione Giappone, 58/ma Biennale arte. Foto di Costanza Fraia

Da sempre, il Giappone deve fare i conti con la potenza incontrollabile della natura e anche con i disastri procurati dalla nostra specie…
Il progetto rappresenta un tentativo di risposta, attraverso la riflessione sulla coesistenza di forme di vita eterogenee, a luoghi e modalità dell’esistenza umana. La nostra vita, in ogni angolo del paese, si fonda sulla convivenza con l’incombenza di fenomeni naturali di vario genere. Ad esempio, i vincoli architettonici giapponesi sono molto austeri, poiché la progettazione ha necessità di prevedere la gamma delle catastrofi, terremoti in primis. Durante il grande sisma del Giappone orientale del 2011, in una zona costiera tra le più colpite, grandi navi vennero distrutte e rimasero lì per alcuni anni, prima di essere smaltite. Come la cupola di Hiroshima si erge a memoria dell’atomica, così le barche rappresentavano un ricordo dello tsunami. Tuttavia, il ricordo provoca anche dolore e a molti può risultare sgradito; pertanto, quelle «carcasse» sono state rimosse. Alle operazioni di rimozione era presente proprio Motoyuki Shitamichi, lo stesso artista che si è imbattuto negli tsunamiishi, nei dintorni di Okinawa. Quelle rocce gli hanno riportato alla mente le barche spazzate a riva nel disastro del Tohoku. Possedevano una monumentalità anonima che rimandava alle rovine di guerra.
Le rocce rovesciate sulla terra dalla veemenza dello tsunami contengono certamente la memoria della tragedia. Da un lato però, non sono altro che pietre, dunque difficilmente messaggere di ricordi mesti. Trasportate dagli tsunami centinaia di anni fa, ospitano ora specie vegetali e nidi di uccelli migratori, oppure si sono trasformate in oggetto di culto e preghiera. Costituiscono una sorta di piazza dove si radunano umani e non. Quando Shitamichi mi ha presentato il suo lavoro ispirato agli tsunamiishi, ho percepito che poteva trattarsi di una partenza per ulteriori approfondimenti, per trovare una risposta all’interrogativo che mi è sempre premuto, ovvero luoghi e modi di vita possibile. La riflessione sulle forme di coesistenza, non solo in caso di emergenza, tra individui di diversa storia, mentalità o valori si rivela impellente non solo per il Giappone, ma per l’umanità intera. Per questo motivo, ho sviluppato un progetto che si avvalesse della collaborazione di esperti in ambiti differenti. La roccia dello tsunami non veicola solo il senso di Giappone, ma assume la funzione di una piattaforma per l’ampliamento dell’orizzonte cognitivo, facendo spazio al concetto di coesistenza tra le specie.

Il titolo «Cosmo Eggs» lascia immaginare un risvolto positivo e tramanda anche una idea di rinascita possibile. È forse così?
Di solito, si pensa con rassegnazione e fatalismo che «non si possa esistere che in questo modo». Le catastrofi si ripetono cicliche, ma non per questo perdono la loro aura tragica. Inoltre, si sopravvive di più, possiamo nutrirci di pensieri positivi e fare progetti così da creare circostanze migliori rispetto al passato. Basandoci sull’affermazione dello stato attuale delle cose, abbiamo sondato varie forme e possibilità di coesistenza. Tale approccio è contenuto nella pluralità delle «uova». In che misura si accetta la diversità? Attraverso la collaborazione degli specialisti chiamati a lavorare per la mostra, si tentano alcune risposte. Umani e non, gente differente per lingua o cultura, storia, etica: come si può trattare la convivenza nell’alterità? Le uova cosmiche sono ambasciatrici di tante leggende e custodiscono l’intenzione di ricercare le condizioni di una nostra coabitazione.

Lo tsunami è al centro di una narrazione che indaga i rapporti tra esseri umani e natura in generale. Lei userebbe la parola «antropocene»? Oggi è un termine popolare, che sfoggia una vena profetica…
Le cose artificiali, a cominciare dalla plastica, ci sopravvivranno di certo; e sono d’accordo con la previsione che l’attività dell’uomo, che ha attraversato l’esperienza nucleare, possa influire sulla Terra. È giunta al termine l’epoca della riflessione univoca sull’essere umano, ora è necessario pensare alla convivenza con l’alterità, nell’ambiente che noi stessi abbiamo «allestito».

Il padiglione per la Biennale è concepito in maniera organica, come fosse un corpo integrato?
Il progettista, Yoshizaka Takamasa è l’artefice di una concettualità squisitamente personale, improntata allo studio della forma integrata e all’«unità discontinua». La sua è una visione funzionale dell’architettura. I fori nel centro del soffitto e nel pavimento vanno considerati come elementi connotanti. Il corpo degli animali, compreso l’uomo, presenta sempre diverse cavità. Lo spazio, però, può essere anche una metafora del cervello più che del corpo, dato che abbiamo ampliato il discorso alla cosmologia delle uova e quindi all’indagine sulle modalità di nascita.

(Traduzione dal giapponese di Maria Cristina Gasperini)