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Foujita, il mio braccio destro lo offro al Giappone

Foujita, il mio braccio destro lo offro al GiapponeTsuguharu Foujita, «Attsuto gyokusai» (La carica suicida di Attu), part., 1943, Tokyo, Museo Nazionale di Arte Moderna

Le immagini della guerra: Tsuguharu Foujita Il caso controverso e ossessionante dell'artista nipponico, dalla bohème della Parigi anni venti (nudi e gatti) alla Guerra del Pacifico, scene convulse ebrulicanti degne di Delacroix

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 21 agosto 2022

La fama internazionale di Tsuguharu Foujita (Tokyo, 1886 – Zurigo, 1968) è legata principalmente al periodo trascorso a Parigi negli anni venti, quale esponente della comunità cosmopolita degli artisti insediati a Montparnasse, amico di Modigliani, Soutine, Picasso e Kiki. Tutto ciò sembrerebbe un preludio poco coerente con la drammatica parabola del patriota giapponese che nei primi anni quaranta dirige l’Associazione artistica dell’Esercito e con il pennello combatte valorosamente per il proprio paese fino alla dolorosissima sconfitta. In effetti la percezione della figura di Foujita in Giappone appare molto diversa nonché controversa rispetto a quella che ne ha l’Occidente, essendo quest’ultima abbastanza parziale, ovvero centrata sulla sua produzione pittorica di gattini e nudi femminili, sull’eccentricità narcisista e sulle avventure sentimentali.

D’altronde, Foujita è stato trattato con parzialità anche in patria, dapprima con eccessiva acredine poi con esagerata indulgenza. Per decenni, dopo la guerra, ha portato lo stigma del criminale di guerra; con il nuovo millennio invece è cominciato un processo di riconciliazione teso a ribaltare la sua reputazione: da bieco opportunista, che non ha esitato a rinnegare il proprio paese quando gli è convenuto, a genio pacifista vittima delle circostanze – appartengono a questo nuovo corso la retrospettiva tenuta nel 2006 presso il Museo Nazionale di Arte Moderna di Tokyo (Pari o miryo shita ihojin, «Il non-giapponese che affascinò Parigi») e il film Foujita (2015) di Kohei Oguri.

L’artista giapponese in una fotografia di René Maltête

Figlio di un alto ufficiale medico dell’armata imperiale, prima di trasferirsi a Parigi nel 1913, Foujita (è traslitterazione francofona: in giapponese Fujita) studia presso l’odierna Università delle Arti di Tokyo. In Francia riscuote un discreto successo grazie alla capacità di coniugare l’avanguardia modernista con l’estetica tradizionale del Sol Levante, e forse anche perché personifica in modo innocuo l’alterità orientale. Nel 1933, dopo aver viaggiato in Sud America, rientra in Giappone. Qui dal 1935 il governo sostiene attivamente le arti e con l’inizio delle ostilità contro la Cina nel 1937 rafforza il controllo sugli artisti commissionando opere di propaganda. Lavorare per i militari è una mansione delicata ma remunerativa, perché consente di avere soldi, materiali per dipingere e occasioni per esporre. Data la sua abilità nella figurazione, Foujita viene aggregato alle truppe inviate in Cina. Di lì a poco è nominato presidente dell’Associazione artistica dell’Esercito (Rikugun Bijutsu-kyokai), una delle varie corporazioni d’arte in seno alle forze armate. Tra il 1938 e il 1945 realizza numerosi senso sakusen kirokuga (dipinti documentari sulle campagne di guerra), divenendo uno dei più prolifici autori di senso-ga (pittura di guerra).

Rispetto ai lavori prodotti in Europa, le differenze sono evidenti non solo nei temi ma soprattutto nella concezione dell’immagine: da una superficie algida quasi monocromatica dedicata alla rappresentazione calligrafica di nudi stilizzati, Foujita passa ad ampie vedute d’insieme in cui predomina il realismo. Ben presto però le composizioni, inizialmente ariose e luminose, si trasformano in scene brulicanti di corpi aggrovigliati in una cupa gazzarra di convulso dinamismo. Nella ricerca di enfasi, Foujita arriva persino a trasgredire il divieto riguardante la presenza di combattenti giapponesi morti o agonizzanti in opere pubbliche.

Tra le tele più significative di questo periodo, La carica suicida di Attu (Attsuto gyokusai, 1943) celebra il coraggio delle truppe del colonnello Yasuyo Yamazaki nel tragico svolgimento di un attacco banzai sferrato la notte del 29 maggio 1943 contro le soverchianti forze statunitensi sull’isola di Attu. Si tratta di un episodio cruciale nella Guerra del Pacifico, avvenuto su un’inospitale isola dell’arcipelago delle Aleutine, nel Mare di Bering, che assieme alla vicina Kiska è l’unica zona del territorio americano invasa dal Giappone – dall’ottobre 1942 al maggio 1943. Nonostante la disfatta, le autorità giapponesi hanno comunque voluto presentare la campagna delle Aleutine come un’epopea ispiratrice.
Nella sua pittura di guerra Foujita depone ogni velleità edonista e individualista per offrire una cruda rappresentazione della violenza e del dolore collettivo. «Immagini come quella di Attu sono ottimi veicoli di propaganda perché incoraggiano nei giapponesi la vocazione all’auto-sacrificio» (Asato Ikeda). Da questo punto di vista, il lavoro di Foujita è emblematico.

Dichiara il pittore alla rivista «Bijutsu» nel 1943: «Sono oltre quarant’anni che dipingo e finalmente ho capito il senso del mio lavoro (…) Sento di aver offerto il mio braccio destro alla nazione. Quanto è gratificante il fatto che i pittori possano aiutare concretamente il proprio paese! (…) Vorrei esortare i giovani pittori a produrre senso-ga. La guerra inizia ora. Servono maestri di pittura di guerra come Delacroix e Velásquez. Il Giappone non può più limitarsi a dipingere uccelli, fiori e montagne».

Dopo la resa, nel 1945, il governo alleato di occupazione si adopera tramite l’Office of the Chief Engenieers (OCE) per rastrellare quante più opere senso-ga. In una prima fase ciò avviene grazie alla collaborazione tra l’artista americano Barce Miller, membro dell’OCE, e Foujita; i due si conoscono dai tempi della bohème parigina. Uno degli scopi di questa confisca è reperire materiale per una mostra dal titolo Conquest of Japan da allestire negli USA, al Metropolitan Museum di New York e al National Military Museum di Washington D.C. Foujita commenta l’iniziativa in un’intervista apparsa sul quotidiano «Asahi» nel dicembre 1945: «È un’ottima notizia per noi (…) sono felice che i quadri, in cui ci siamo sforzati di mantenere la massima qualità estetica, vengano apprezzati sul palcoscenico mondiale (…) Gli americani dicono che ci restituiranno i dipinti tra trenta o cinquant’anni, una volta estirpato il militarismo. Non posso fare altro che esprimere loro la mia gratitudine, perché dimostrano una profonda sensibilità per l’arte». Tuttavia il generale MacArthur blocca il progetto e le opere rimangono in mano americana fino al 1970, quando vengono infine affidate al Museo Nazionale di Arte Moderna di Tokyo.

Già negli anni venti c’era stato chi tra gli artisti giapponesi aveva tentato per gelosia di sminuire i successi ottenuti da Foujita all’estero, biasimando il suo stile di vita libertino. Al termine del conflitto, il suo passato di dirigente nell’Associazione artistica dell’Esercito diviene il pretesto per fare di lui un capro espiatorio. Così nel 1949 decide di espatriare in modo definitivo rifiutandosi di chiarire pubblicamente il proprio coinvolgimento nelle attività militari.

Tornato in Europa passando per New York, riprende la più rassicurante produzione di nudi e gattini, e nel giro di pochi anni acquisisce la cittadinanza francese, riceve la Legione d’Onore e nel 1959 si converte al cattolicesimo facendosi battezzare con il nome di Léonard, in omaggio a da Vinci.

Scrive nel 1967: «I giapponesi vogliono farmi scontare la loro invidia nei miei confronti. Nessuno trama alle mie spalle contro di me come i giapponesi. Sono un popolo di bugiardi, gente di cui non posso fidarmi. Quanto mi hanno torturato! (…) Mi sono debitori, perché li ho aiutati e ho dipinto per loro. Pensano solo a sé stessi e a fare soldi. Nessuno è più infelice di me. Sono davvero afflitto».

Ancora oggi Foujita, con tutte le sue contraddizioni, ossessiona la coscienza degli intellettuali giapponesi in quanto simbolo dell’irrisolta tensione tra la responsabilità morale di un individuo e quella di una nazione in guerra.

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