Tsai Ming Liang, cinema e memoria
Incontri Alla Mostra «Goodbye Dragon Inn», il lungometraggio del regista cinese del 2003 riproposto in una copia restaurata. «Ho scoperto il cinema quando avevo tre anni, ricordo bene quel film: era legato alla Cina e alla sua mitologia»
Incontri Alla Mostra «Goodbye Dragon Inn», il lungometraggio del regista cinese del 2003 riproposto in una copia restaurata. «Ho scoperto il cinema quando avevo tre anni, ricordo bene quel film: era legato alla Cina e alla sua mitologia»
Lo spazio è quello del Teatro delle Tese, all’Arsenale, poche fermate di distanza dal Lido che sembra già lontanissimo. Tsai Ming Liang è nell’atrio in disparte, su un grande telo bianco disteso in terra traccia schizzi, disegni, fogli sparsi mostrano il profilo di edifici. L’evento si chiama «Improvisations on the Memory of Cinema», e di memorie cinematografiche è composto Bu san, Goodbye Dragon Inn, presentato alla Mostra di Venezia nel 2003, riproposto in questa occasione nella copia restaurata. Un film sul cinema e sulla memoria del regista, i suoi ricordi di bambino e lo stupore della sala buia che è una casa, un rifugio, lo spazio del desiderio, degli incontri fugaci, di una clandestinità, dell’amore. Accarezzati dall’oscurità si intrecciano come in una danza personaggi diversi, nel «contatto laterale» si sfiorano gli uomini, si cercano con lo sguardo, compongono geometrie del desiderio. Fuori piove, è l’ultima proiezione prima che la sala chiuda per sempre, e in quel calore un po’ misterioso trova riparo un ragazzo giapponese; c’è poca gente, appena qualche spettatore, mentre lo schermo gigante proietta Dragon Inn, un film di cappa e spada di tanti anni prima… La cassiera vuole dividere il suo dolce di pesca col bel proiezionista, lo cerca in cabina, lui non c’è e lei non vuole andare via senza vederlo un’ultima volta … Si avventura nei corridoi del cinema, quasi un labirinto, intanto in sala il ragazzo osserva due uomini che somigliano agli attori ma invecchiati. Son reali o sono dei fantasmi? Avanti e indietro nel tempo, dove arriva l’illusione? Sul bordo è costruita anche la performance del regista, di cui la materia sono il film e lui stesso in una continuità di intrecci, rimandi, biografia e romanzo nella memoria tattile, dilatata, quasi fisica che nelle immagini di Tsai Ming-liang si fa esperienza più che «ricordo».
All’inizio c’erano i film di wuxia. Lo racconta camminando sul telo bianco, sui suoi schizzi. Era un bambino, quello che appare in Busan? «Ho scoperto il cinema quando avevo tre anni, ricordo bene il film, si chiamava Chasing Fish, era storia d’amore tra lo spirito di un pesce che si incarna in una donna e un ragazzo. Mi aveva colpito l’immagine della donna che emergeva dall’acqua, il film era a colori, perché rimanda alla mitologia cinese. Non ricordavo di cosa parlasse quando sono tornato a vederlo e ho scoperto che si trattava di un classico girato a Shangai nel 1960…». Gli stessi anni della sua infanzia, quando viveva con i nonni materni: «Eravamo molti figli e mio padre aveva chiesto loro di occuparsi me». «Il mondo allora era molto diverso, abitavamo in una piccola città della Malesia dai ritmi tranquilli e pienissima di teatri che proiettavano tanti film. I nonni erano dei veri appassionati di cinema, avevano una bancarella dove vendevano spaghetti, lavoravano la sera ma riuscivamo a andare al cinema lo stesso. Quando finiva il film si davano il cambio , così capitava che io guardassi lo stesso film due volte, la sala dove andavamo più spesso si chiamava Odeon».
È strano , quasi magico come la narrazione di Tsai Ming-liang, gli aneddoti e le osservazioni sull’arte, dialoghino con le sue immagini. Le abbiamo appena viste in sala e le sue parole ne echeggiano le atmosfere, l’emozione: vita, immaginario, un flusso che scorredentro e fuori. Che film guardava il piccolo Tsai Ming-liang? Western, film commerciali di Hong Kong, di arti marziali, il cinema era meglio della scuola, i compiti glieli facevano i nonni la sera era troppo stanco per mettersi sui quaderni e così non era proprio uno studente modello.
«È per questo che mio padre mi ha riportato a casa». Il palazzo è quello del disegno, sette piani di edifici progettati per gli immigrati cinesi. C’era un prato, c’era la vasca dei pesciolini rossi, come nei suoi film. E il cinema? «Mi ero innamorato del personaggio femminile di Come Drink with me (1966, diretto da King Hu) che combatteva benissimo e io cercavo di imitarla coi bastoncini che si usavano per preparare gli spaghetti. I wuxia-pian si possono amare tutti ma quando ho visto il secondo film di King Hu la mia percezione del ‘genere’ è cambiata radicalmente. Avevo undici anni, il film era Dragon Inn (1967), all’improvviso gli eroi dei wuxia mi apparivano come esseri umani, camminavano, mangiavano, esprimevano un mondo reale e la visione di un autore». Goodbye Dragon Inn. Un omaggio, un addio? Nell’aria risuona una canzone, era quella preferita da suo padre, la cantava Zhou Xuan una star di un film degli anni Trenta, Angeli della strada. «Mio padre lavorava in una fabbrica di spaghetti, quando ero in vacanza mi portava insieme a lui, ogni volta che sentiva questo motivo si fermava, apriva il frigorifero, prendeva il caffè e mangiava un pezzetto di burro. Dobbiamo ricordarci le cose belle come i bei film e non quelli che non abbiamo amato. Il cinema è stato importantissimo per le persone della mia età.».
Un film dentro a un cinema è come una madeleine che narra un’epoca, un mondo. Per i cinesi emigrati a Taiwan perché poveri, i film e le canzoni curavano la nostalgia di casa. Il cinema come memoria? «Nel teatro Fu Ho avevo fatto la prima di Che ora è laggiù? (2001). Nonostante la pioggia sono arrivate almeno mille persone. Il giorno dopo il gestore mi ha chiamato, era stupefatto e mi ha proposto di lavorare con lui. Ma io preferivo girare film e allora lui mi ha detto che avrebbe chiuso la settimana successiva. Era triste, tutti i cinema dove andavo da ragazzo stavano scomparendo divorati dai palazzi, dalle nuove costruzioni… Così l’ho affittato per un anno, cercavo la location per Goodbye Dragon Inn, era stata una decisione improvvisa ma mi era venuto in mente l’Odeon della mia infanzia, mi dava molta malinconia che tutto questo sparisse. Se ci pensate oggi quasi nessuno ricorda dove ha visto un film ma per me erano luoghi importanti, ci trascorrevo molta parte delle mie giornate … Abbiamo lavorato girando quattro scene ogni giorno, preparavamo la fotografia e la scenografia e questo ha anche cambiato il mio modo di fare cinema …».
Eppure da qualche tempo i suoi lavori sono usciti dalla sala, appartengono sempre più spesso alle gallerie, si fanno installazione. È stato un po’ per necessità, i suoi film faticavano col pubblico, per la gente erano «incomprensibili», niente trama, sentimenti, quegli elementi a cui lo spettatore orientale è abituato. L’arte è invece un’altra cosa: «In Oriente e in Occidente le concezioni estetiche sono molto diverse, se il cinema deve piacere alla gente l’arte è qualcosa di incomprensibile, che sta nella testa dell’autore». Dunque? Per ottenere una programmazione insieme ai suoi collaboratori Tsai Min-liang vende in giro biglietti fino a ottenere la cifra di diecimila necessaria per avere due settimane di tenitura in sala. «Ho iniziato a vedere il cambiamento del pubblico con sempre più persone che guardavano i miei lavori in galleria. Il cinema poteva diventare arte».
Anche il suo nuovo film oscilla nel tempo, si chiama Days, per la Mostra del cinema non ce l’ha fatta a finirlo. Il protagonista è la sua icona, l’attore Lee Kang-Sheng – «Non voglio più fare film senza di lui» – insieme a un giovane esordiente, Anon, che è in nato in Laos, Tsai Ming-liang lo ha scoperto camminando per strada, non aveva nessuna intenzione di fare cinema proprio come Lee Kang-Sheng. Faranno molte cose insieme: «Non lavoro mai una sola volta con i miei attori». Con gentilezza intanto ce li presenta, portano un regalo per il pubblico: la locandina di Goodbye Dragon Inn.
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