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È emergenza climatica nel mondo ma Trump se ne va

Clima Da quando Trump è diventato presidente, sono state chiuse almeno 50 centrali a carbone negli Usa. Lo stato del Texas, capitale dello shale oil - un idrocarburo la cui produzione è ambientalmente critica - è anche diventato una capitale degli impianti eolici il cui costo di produzione di elettricità è sceso sotto quello degli impianti a fonti fossili

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 6 novembre 2019

Com’era stato annunciato sin dalla sua elezione, Donald Trump ha formalmente avviato le procedure per far recedere gli Stati uniti dagli Accordi di Parigi. Così il secondo Paese per emissioni di gas a effetto serra esce dall’accordo globale per combattere i cambiamenti climatici. Anche se, va ricordato, l’efficacia del ritiro americano dagli Accordi sarà effettiva solo tra un anno – giusto il giorno dopo le presidenziali americane – per cui il prossimo presidente degli Stati Uniti avrà poi 30 giorni per eventualmente decidere di rientrare nell’Accordo di Parigi.

Dunque, nel dibattito politico statunitense, già rovente per la procedura di impeachment avviata dal Congresso a maggioranza democratica, si carica anche della questione del clima globale che, mai come in questo 2019, è stata presente nell’agenda grazie anche ai nuovi movimenti giovanili e meno che hanno fatto irruzione in mezzo mondo. “Isolazionismo moralmente riprovevole” è la reazione di Greenpeace Usa che sottolinea come questa decisione, che isola gli Stati uniti dal resto del mondo, avviene proprio mentre incendi e tempeste aumentano e mentre milioni di persone sono scese in strada per chiedere un cambiamento.

Ma la politica di Trump sta riuscendo a difendere i vecchi settori fossili? La risposta è sostanzialmente negativa. La produzione da carbone, nonostante l’amministrazione Trump abbia deregolamentato le emissioni nocive, continua a scendere e quest’anno si registra una riduzione del 14% per ragioni economiche: le alternative – lo shale gas, il cui impatto è però stato sottovalutato, ma anche le rinnovabili – sono più convenienti.

Da quando Trump è diventato presidente, sono state chiuse almeno 50 centrali a carbone negli Usa. Lo stato del Texas, capitale dello shale oil – un idrocarburo la cui produzione è ambientalmente critica – è anche diventato una capitale degli impianti eolici il cui costo di produzione di elettricità è sceso sotto quello degli impianti a fonti fossili.

Come conseguenza di questa tendenza – spinta dagli sviluppi delle tecnologie – le fonti rinnovabili lo scorso aprile hanno superato, per la prima volta nella storia americana, la produzione elettrica a carbone.

Del resto, guardando i diversi incontri internazionali sia le COP sul clima che i G7 e G20 dal 2017 in poi, sul tema del clima globale la posizione americana è stata sempre isolata con gli altri Paesi quasi tutti abbastanza compatti pro-Parigi, almeno nelle dichiarazioni di principio. E persino la Russia, quarto Paese per emissioni di CO2, lo scorso 15 ottobre ha depositato la ratifica degli Accordi di Parigi, anche se con quattro anni di ritardo.

Seppur in modo insufficiente, zoppicando e in ritardo rispetto alla velocità dei cambiamenti in atto – ieri un appello di 11 mila scienziati tra cui 250 italiani sulla rivista BioScience ha dichiarato la Terra in piena emergenza climatica – le cose si vanno muovendo nella direzione giusta.

Ciò che Trump e chi lo sostiene mettono in discussione è (anche) la leadership di questo percorso che segnerà la storia: dal secolo americano e del petrolio dobbiamo al più presto passare, per così dire, al secolo del sole e del vento. In questa direzione però, nuovi Paesi emergono e nuovi equilibri si possono determinare. Se nella storia questi cambiamenti geopolitici sono avvenuti con guerre e distruzioni, la scommessa fatta a Parigi è di riuscire far evolvere le economie e le società verso un sistema a bassa emissione di CO2 – dunque con un sostanziale ricambio di tecnologie – in modo negoziato e pacifico. Invece di investire in guerra, investire tutti in tecnologie pulite e cooperando tra Paesi.

Vedremo se negli Stati uniti prevarrà la paura di vedere detronizzati vecchi settori industriali o la speranza rappresentata dal Green New Deal proposto dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez – un vero e proprio piano Marshall per il clima e l’ambiente – di cui vediamo un primo, ancora incerto, segnale anche in Italia. A proposito: una presa di posizione ufficiale del governo italiano di critica alla formalizzazione di Trump sarebbe doverosa.

* Direttore di Greenpeace Italia

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