Anche per il modo in cui fu posta fine alle loro giovani vite: Bob Kennedy, Martin Luther King, Malcom X. Del dottor King, a giorni, ricorrono sessant’anni dal suo discorso davanti al Lincoln Memorial di Washington, il celeberrimo I have a dream. La forza di quelle parole resta intatta, non la capacità del sistema di elaborare e superare traumi come quelli che segnarono gli anni Sessanta – con il suo omicidio e con quelli di John Kennedy, del fratello Bobby, di Malcom X – e gli anni Settanta, con le dimissioni di Richard Nixon. Trump pone una sfida inedita al sistema, senza precedenti, specie dopo il suo formale arresto nel carcere della contea di Fulton, una sfida più seria e più grave perfino di quella che posero i killer dei Kennedy e di MLK e i loro mandanti.

Diversamente dalle vicende che punteggiarono col sangue gli anni Sessanta, con una lunga coda nei decenni seguenti, il caso di Trump non si presenta come una cruda e crudele anomalia lungo un percorso fondamentalmente democratico, o che tale si autorappresenta, capace di correggersi e tutelarsi. Nel suo proseguire negli anni e consolidarsi, la traiettoria di Trump rispecchia e racconta ormai un modo d’essere di una parte consistente del sistema stesso. Se poi Trump, pur carico di gravi incriminazioni, con altre in arrivo, riuscirà a essere il candidato ufficiale del Partito repubblicano e poi a essere eletto presidente, la storia che si sta dipanando intorno a lui, dalla sua apparizione sulla scena politica nel 2015 fino alla foto segnaletica del suo arresto in Georgia e ai prossimi episodi giudiziari, sarà raccontata come la storia di una deriva distruttiva, inarrestabile, della stessa democrazia americana.

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Che si vada in questa direzione sembra confermarlo il primo dibattito, giovedì scorso, tra otto aspiranti presidenziali repubblicani a Milwaukee. Un’esibizione di vuoto politico che attendeva solo di essere riempito dal grande assente al confronto. Trump. L’unica presenza significativa. Non certo per i contenuti della sua agenda politica, del tutto simile a quella dei rivali, ma per il peso e lo spazio che la sua figura ormai occupa nel suo partito e sul più ampio terreno mediatico-politico.

Per quanti sforzi faccia il circo mediatico di attizzare uno scontro nel campo repubblicano, che faccia immaginare una vera corsa di cavalli, come di solito sono le presidenziali, c’è un uomo solo in competizione, più con se stesso che con gli altri contendenti, in gara nel distanziarsi da lui ma non fino al punto – con un paio di eccezioni – di prendere anche le distanze dai diversi magistrati che gli danno la caccia. Lo sforzo dei media di dare dignità di competitor a personaggi come Ron DeSantis, o la nuova stella già opaca, Vivek Ramaswamy, o a vecchie conoscenze come Chris Christie o Nikki Haley o Mike Pence, sembra finora vano e non particolarmente cercato, in presenza di una narrazione ben più ghiotta e avvincente come la corsa solitaria contro tutti di Donald Trump.

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I democratici mantengono un atteggiamento non dissimile da quello del circo mediatico, convinti che Trump sia il migliore avversario per Biden e che la sua maratona giudiziaria, con altre tappe in vista lo possa logorare, per il tempo che sottrarrà alla sua campagna elettorale e per l’enorme quantità di fondi necessari per le spese legali, mentre il grosso dei suoi luogotenenti e fedelissimi, Giuliani in testa, finisce nel tritacarne giudiziario. È un logoramento che potrebbe anche essere percepito da pezzi del suo elettorato più fedele e militante, non più disposti a seguirlo sulla via della vittimizzazione come unica carta per conseguire la vittoria nel 2024. In più, andrà valutata la forza reale di Trump nella sua capacità di trainare i candidati repubblicani al senato, alla camera e a tutte le altre cariche in palio nell’Election Day del novembre 2024. Riuscirà a proporsi come il candidato-presidente in grado far vincere con lui gli aspiranti senatori e deputati? Il destino politico di Trump è legato alla risposta a questo interrogativo oltre che alla tenuta della sua base.

L’attendismo e il giocare di rimessa di Biden – e dei democratici – sono dettati dalla sua condizione di incumbent. Primarie simboliche. Zero confronto con altre opzioni e ambizioni politiche. Nelle precedenti primarie democratiche, fu un fatto positivo per Biden confrontarsi con altri candidati, Bernie Sanders in particolare. Oggi la sua piattaforma è l’impegno a portare avanti l’attuazione delle promesse della precedente piattaforma elettorale, del 2020, e non ancora attuate nel primo mandato, garantendolo con la sua statura presidenziale, non proprio brillante. Un’offerta obiettivamente poco sexy politicamente, come può esserla quella di un usato sicuro.