Se gli ultimi zar erano apertamente sbeffeggiati da chiunque sapesse leggere e se l’essenza tragica dell’uomo sovietico era il quotidiano mentire sapendo di mentire, la nuova autocrazia gode di un sostegno autentico e incondizionato come mai prima nella storia, e non c’è nessuno che gridi l’evidenza. Il cuore del putinismo è radicato nel silenzio.
A un’intera società che non considera né sensato né naturale protestare si è arrivati con raffinata ingegneria delle anime: il mezzo televisivo, ancora trent’anni fa irrilevante, è attivato 24 ore su 24, non alla falsificazione, ma a una spiazzante costruzione integrale della realtà; all’idea stessa di democrazia è stato impresso l’indelebile marchio d’infamia di istituto alieno generatore di caos e inapplicabile sul sostrato culturale russo; il nuovo immaginario condiviso è fondato su uno sconcertante sincretismo tra tutto quanto nell’eredità zarista e sovietica sia spendibile in salsa granderussa; la secolare centralità della letteratura, che affidava a poeti e scrittori la funzione supplettiva dei mai nati parlamenti, è stata sradicata senza neanche ricorrere alla censura, semplicemente svuotando di ogni peso mediatico i luoghi in cui si osa protestare.

Il silenzio è indotto ma tombale e gli oppositori parlano contro il muro. L’uomo della strada vive in un autocompiaciuto torpore e si nutre del mai dismesso mito dell’esclusiva identità nazionale e della vocazione imperiale della Russia. A rinfocolarlo, oltre al grande apparato della cultura di massa, molto cinema e molta letteratura (da Michalkov a Prilepin, per restare ai più tradotti da noi). La maggioranza degli scrittori, tutto sommato, tace, guarda altrove, scrive d’altro. Gli unici che convintamente, con lo stridore della denuncia, raccontano l’oggi sono quelli che hanno la vocina più flebile, più in ombra e più lontana dai flussi comunicativi: i poeti.

Di questa resistenza passiva in versi dà conto disAccordi Antologia di poesia russa 2003-2016 (Stilo editrice, pp. 286, euro 16,00), curato con esemplare competenza e coerenza da Massimo Maurizio. La selezione è tra le più vincolanti: solo poeti che abbiano esordito dopo il 1991 e solo testi ispirati al macrotema della violenza, vera cifra distintiva di un’epoca e di una società. Gli autori sono tantissimi, ventinove, quasi la metà sono poetesse, e ciascuno è presente con non più di tre-quattro composizioni: una prospettiva, quindi, che mira all’evidenziazione di una diffusa comunanza di mezzi estetici e d’intenti.
Pochissimo noti, com’è ovvio, in Italia (solo di Andrej Sen-Sen’kov e Elena Fanajlova sono state tradotte delle raccolte), questi poeti – tanto i già affermati cinquantenni, come Andrej Rodionov e Sergej Timofeev, che la prima generazione cresciuta oltre l’Urss (sempre più nitido il talento di Roman Osminkin) o i giovanissimi poco più che ventenni (Oksana Vasjakina tra gli esordi più brillanti) – muovono da comuni presupposti etici e poetici che determinano, coalizzando il disaccordo, il ben riconoscibile canone di una nuova poesia civile: testi polistrofici medio-lunghi, frequentissimo abbandono della metrica tradizionale – e in Russia lo strappo è tutt’altro che indolore – spesso rinuncia anche alla rima, ritmo borbottato, più o meno prosastico, quasi totale assenza di titoli, io lirico mascherato e irriconoscibile, a esemplificare il destino comune in dolenti parabole nere. Grande, anche tra i più giovani, la consapevolezza storica, che permette di sentirsi allo stesso tempo dentro e fuori un popolo, una cultura, una nazione, invadendone con cupa ironia le dinamiche storico-culturali.

Del tutto assente il pathos, ciò che restituisce il polso di una ben specifica poesia civile. Nessun compiacimento neanche nell’infrazione, nel superamento del limite e del lecito: nulla resta dello spirito dell’avanguardia e il testo che sopravvive alla propria morte non può che inorridire all’evidenza di come la realtà violi costantemente il confine di ciò che si vorrebbe umano. Scrivere poesia civile e parlare di violenza è tautologico nella Russia di oggi: dalla brutalità fisica e verbale contro i diversi, apertamente fomentata dall’accanimento mediatico, a quella gratuita e più aberrante che lacera la plumbea routine quotidiana, alla violenza contro le donne e i bambini, pervasiva soprattutto tra le mura domestiche, dove, intimizzandosi, si manifesta nelle più inquietanti traslazioni poetiche: mostriciattoli e orchi allevati in casa, i corpi più cari orridamente metamorfizzati. Così accade nei dedali delle metafore concatenate nei versi di Sen-Sen’kov, che si conferma come il miglior fabbro, in un glaciale futuro d’incubo dove i bambini vengono mutati in poliziotti e «di notte/ impiccano i fiocchi di neve come gatti/ al letto a castello del termometro».

Le sottigliezze retoriche sono però l’eccezione: per raccontare la violenza percepita nell’aria, nei media e nel tessuto dei rapporti sociali il procedimento dominante è la mimesi integrale. Come spiega Elena Kostyleva: «Io parlo con me stessa con la lingua della violenza – proprio come Putin durante la sua conferenza stampa dada».

La lingua della poesia è truce e salmastra, irta, scostante e scabrosa, così come le storie e gli intrecci: in nulla catartica, questa disperata esibizione di violenza è l’innesco primario della scrittura: perdendo l’autonomia della propria voce, il poeta si carica addosso come una cappa indissolubile il peso di un io lirico collettivo che di questa violenza è contaminato. Il procedimento è particolarmente nitido nella poesia di Andrej Rodionov, il cui distorto alter ego, ad esempio, nel più cupo mattino di un tardo autunno si sente rudemente quanto immotivatamente apostrofato mentre attraversa la strada, torna indietro, sbatte per terra il malcapitato cafone e gli tempesta la faccia di pugni, e mentre questo accade il suo io si apre a una superiore percezione cosmica.

Sembra, a chi legge, di essere davanti al consueto gioco delle voci e della parola altrui, e invece qui non si tratta più di un gioco: lo dice già la copertina dell’antologia, dove un uomo mascherato strappa la maschera a un altro uomo mascherato, che possiamo intendere come suo sosia. E lo ribadisce con lacerante evidenza Pavel Korciagin, poeta e critico di grande consapevolezza metaletteraria in un saggio intitolato «La maschera si strappa assieme alla faccia». Il poeta assieme al lettore precipita in un universo senza vie d’uscita di una piattezza terrificante: «perché oggi come oggi nessuno può difendere nessuno,/ perché il ciclo è terminato», sancisce una delle voci di Oksana Vasjakina. Per la prima volta nella storia culturale russa, non c’è il minimo spazio per la trascendenza, e naturalmente non ci sono eroi: la posizione extraletteraria del poeta si traduce in immobilismo assoluto: nessuno, tranne Kirill Medvedev, pensa pur lontanamente all’attivismo politico.

Non c’è più traccia della forza salvifica della parola: non sono presenti epifanie, magie e prodigi. Dalla vita, insomma, non si può più fuggire nel testo, come accadeva facilmente ai poeti che avevano già raggiunto la loro piena maturità in epoca sovietica (cioè nella clandestinità), la generazione dei vari Gandlevskij, Kibirov, Rubinštejn, Stratanovskij, che restano i più grandi poeti viventi, ma appartengono a una dimensione etica ed estetica a tutti gli effetti non comparabile con quella odierna.

La nuova poesia russa si nutre, infatti, di una parola arida e ostica, vive in totale sintonia con la nuova società, delle cui dinamiche inorridisce senza escludersene; anzi, trova la sua piena realizzazione solo fuori dalla pagina, nelle partecipatissime letture pubbliche, nei gruppi e nei sodalizii, negli slam poetici, nei club dove poeti, performer e musicisti si scambiano costantemente di ruolo, nella videopoesia e in tutte le forme di arte multimediale, nella sconfinata rete sociale parallela che la poesia è andata a costituire nell’Internet russofono. Un fermento con pochi eguali al mondo, che è in sé straordinaria testimonianza di vitalità creativa.

Proprio al confine tra le arti, ma partendo da implicazioni identiche a quelle della poesia, stanno quei gesti estetici eversivi che, per la loro portata mediatica, non sono più tollerabili dal potere: i gesti che hanno condotto le Pussy Riot in carcere e Piotr Pavlenskij alla fuga in Francia, dopo essersi inchiodato un testicolo al selciato della Piazza Rossa e aver materializizato le «porte dell’inferno» dan.do fuoco all’ingresso della sede storica dei servizi segreti.