Visioni

«Trouble», nel mondo di Warhol tra l’icona pubblica e i suoi segreti

«Trouble», nel mondo di Warhol tra l’icona pubblica e i suoi segreti

Intervista La Pop art, New York, le rivoluzioni degli anni ’60, i miti della Factory e dei suoi protagonisti. Gus Van Sant racconta il suo esordio teatrale, al RomaEuropa festival

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 10 ottobre 2021

Erano gli anni Sessanta quando Gus Van Sant ancora ragazzino si lasciava incantare dagli echi di quel centro del mondo che era New York, la metropoli del «nuovo», dove le cose cambiavano in fretta, quasi senza respiro. Una manciata di anni più tardi, quando ci arriva lui lavorando un po’ qua e là dopo il diploma alla Rhode Island School of Design, la città era dunque già un’altra, molte storie sembravano lontane, ma quell’epoca «sognata» coi suoi miti e le sue fantasie gli era rimasta dentro – «gli anni Sessanta sono un po’ una mia ossessione», sorride. Da qui, da questa (magnifica) «ossessione» nasce Trouble, lo spettacolo che segna il debutto di Van Sant come regista a teatro – al RomaEuropa festival, in scena ancora oggi – dedicato a Andy Warhol, che di quegli anni e di quella New York è l’icona leggendaria, amato, odiato, adulato, insultato, aggredito, desiderato. L’autorevole critica Pauline Kael («The New Yorker») snobbava i suoi film mentre il critico d’arte Clement Greenberg, sostenitore dell’astrattismo, aveva bocciato la Pop art sin dal primo quadro. Davanti ai ritratti warholiani delle Campbell’s, i barattoli della zuppa, gridavano allo scandalo, li consideravano un insulto, un oltraggio persino. Intanto Warhol aveva rivoluzionato lo sguardo, e sconvolto le regole del mondo dell’arte per sempre. Con la sua aria stralunata, i capelli bianchi diritti, la polaroid che «rubava» l’attimo a chiunque – selfie prima del selfie – era diventato un modello di stile assoluto, iconico quasi come le sue immagini; lui, la Factory incarnavano l’aria del tempo, e quel desiderio di cambiamento dei movimenti che lo attraversavano.

Trouble però non è un biopic, nella sua drammaturgia Van Sant si concentra su alcuni passaggi centrali, e sui primi anni di Warhol, tra il 1959 e il 1967: qualche data, alcuni luoghi come la galleria di Leo Castelli, delle figure importanti, Truman Capote, Edie Sedgwick, magnifica interprete di molti film warholiani, Nico, Gerard Malanga, Valerie Solanas che gli sparò. E la frenesia dell’ambiente in cui si muove quel ragazzo all’inizio timido e impacciato, che compra un sacco di quadri, ha un nome strano, Andrew Warhola, chiede consigli alla madonna e con la mamma parla della zuppa. Lo predono in giro, gli dicono che è «troppo gay» ma le sue opere impongono un segno potente, intanto lui cambia look, lascia cadere la «a» del cognome, è una star.
Ciò che sembra più attrarre Van Sant è soprattutto lo spazio tra l’immagine pubblica e un privato celatissimo, mai esposto, persino impenetrabile del suo «personaggio». In scena gli attori sono molto giovani, quasi a affermare questa «distanza» che è anche passaggio della storia tra le generazioni. Van Sant definisce Trouble un musical – «Era il solo modo per mostrare i primi anni del percorso di Andy» dice. Ci incontriamo a Roma, dopo la prima, nell’aria mattutina una prova di allarme incendio irrompe ogni tanto nella nostra conversazione.

Cosa l’ha portata a Warhol? Che è un po’ l’essenza dell’icona culturale con cui si è spesso confrontato al cinema – pensiamo a Kurt Cobain in «Last Days» o a « Milk». Una figura la sua che mette alla prova l’immaginario e lo rimodula al tempo stesso.
Quel periodo mi ha sempre attratto anche perché significò una trasformazione dei galleristi di New York, e degli atteggiamenti nei confronti dell’arte. Warhol è stato tra i primi a credere al potere della pubblicità pubblicizzando se stesso. Quando lavorava in pubblicità ideò annunci che imprimevano il suo nome nella memoria della gente, faceva regali ai collezionisti, comprava quadri, andava a tutte le mostre: è stato un pioniere dell’auto-promozione. In realtà la Pop art interpretava un gusto diffuso molto prima, che rimandava al kitsch, e spingeva la gente a comprare oggetti antichi che diventavano moderni. Ricordo poi che a scuola l’insegnante d’arte che era gay ci raccontava di New York, io allora avevo undici anni, non potevo capire bene, ma nel movimento pop si esprimeva anche la scena gay del momento.

 

Pure se dai dialoghi tra i personaggi sembra che dichiararsi gay fosse problematico anche tra gli artisti.
New York era speciale, c’erano bar e luoghi di ritrovo per la vita sociale gay in cui gli omosessuali di tutta l’America potevano trovare un rifugio alla discriminazione che invece era molto forte altrove. Certamente non era facile, se pensiamo che il momento in cui gli attivisti gay hanno cominciato a prendere la parola come movimento è stato nel 1969 con le rivolte di Stonewall.

 

Dell’epoca lei nello spettacolo tratteggia solo alcuni accenni, lavora in astrazione, non ha utilizzato materiali d’archivio o immagini.
Avevo pensato all’inizio di usare degli archivi, forse anche i film di Warhol ma non funzionava. Volevo procedere in modo semplice, quasi minimalista e concentrarmi sui personaggi. L’esterno si manifesta attraverso la presenza di Warhol perché lui ha intuito con grande chiarezza il proprio tempo sintetizzandone molte suggestioni: i fumetti e Dick Tracy, la Campbell’s, star come Marilyn … Lo avevano capito anche Jones o Rauschenberg, ma lui ha spinto ancora di più all’estremo l’idea che la vita è simbiotica con la pubblicità, fino a rendere una pubblicità se stesso. Però era anche un amatore, il suo rapporto col cinema rispecchiava più il desiderio di farlo: girava un film e passava al successivo, Mary Woronov (regista, attrice, tra le protagoniste di  Chelsea Girls, ndr) diceva che a spingerli era la voglia di sperimentare. Il cinema underground è molto interessante ma ovviamente molto diverso dalla macchina produttiva di un film hollywoodiano. In questo mi piace vedere un bisogno di espansione delle proprie conoscenze che vengono così messe alla prova. Era quel momento a chiederlo. Vale anche per le droghe: se penso a figure come Timothy Leary o Richard Alpert per me sono come degli attivisti, negli anni del Baby boom portano una nuova visione dell’Lsd. Richard poi come molti altri è andato in India, alla ricerca di un guru, era una tendenza che ho ritrovato quando ho viaggiato nel 1975 in Europa, sono stato a Amsterdam Roma … Warhol invece non era interessato a queste cose, era lui il guru. La Factory era un po’ come una comune: la gente viveva lì, la vita diventava performance, recitare significava essere se stessi.

C’è qualcosa che rimanda alla sua esperienza nella lettura di Warhol?
Di certo l’ho studiato a lungo, ricordo che quando giravo My Own Private Idaho chiedevo spesso a Udo Kier che aveva lavorato con Warhol (in Il Dracula di Andy Warhol, realizzato da Morrisey, ndr), di parlarmene. Forse poi che ho cominciato tardi a avere successo, a trentacinque anni come lui. O anche essere passato da una fase più indipendente coi miei primi film (Mala Noche, 1986; Drugstore Cowboy, 1989) a Hollywood. Parliamo però di cose diverse, all’interno di un sistema diverso.

Oltre l’epoca e l’icona sembra interessato al lato più invisibile di Warhol.
Penso che voleva essere famoso per il semplice fatto di essere famoso. La sua personalità attraeva le persone e le influenzava all’interno di una logica che risponde al «guardare e essere guardati». La messinscena di sé era fondamentale ma poco ci viene detto di cosa accadeva nella sua mente: sappiamo che era molto religioso, che adorava le icone di santi, anche quelle russe. Mi piaceva provare a muovermi come in un sogno in questo aspetto più segreto.

La pandemia ha segnato dei cambiamenti importanti a cominciare dalla crisi della sala rispetto alle piattaforme dello streaming.
Warhol diceva già negli anni sessanta, nel nastro di un programma radio che ho ascoltato durante le ricerche, che nessuno sarebbe più andato al cinema mentre la tv diventava sempre più influente. Il Covid ha accelerato una tendenza che era in atto al cinema, e che mi sembra risparmiare il teatro. Non sarà facile, e molto dipende dalle strategie delle società cinematografiche stesse.

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