Abraham Grapheus, con la sua faccia incisa dal tempo come una pietra, fu un membro della Gilda di san Luca che riuniva i pittori di Anversa e, soprattutto, un modello per suoi colleghi assai popolare grazie alla particolarità del suo viso. Di lui – dipinto più volte ed esposto nella mostra Turning Heads, appena apertasi nel Museo Reale di Belle Arti della città belga (il Kmska inaugura la nuova stagione dopo la chiusura per i lavori di restauro e ampliamento durati undici anni; la rassegna sarà visitabile fino al 21 gennaio 2024) – si conosce l’identità, ma è un caso raro perché quel genere di pittura che va sotto il nome di «tronie», antico termine olandese per faccia, si esercitava su gente comune, affidando alle teste – separate da ogni altro contesto – una visione del mondo, in certi casi pure esotico, e una prova del proprio virtuosismo nel mestiere. Con una libertà compositiva e tecnica assolutamente individuale, priva di regole imposte. Fu un genere spregiudicato, che ebbe un grande successo in area fiamminga.
Fra il XVI e XVII secolo volti singolari e isolati, che puntavano gli occhi dritto in faccia allo spettatore, presero il posto delle affollate scene religiose (d’altronde, il protestantesimo era la nuova fede) e qualcuno fra gli artisti cominciò a usare quelle facce in modo interattivo, per suscitare una certa empatia nell’osservatore (la comicità delle smorfie per ridere) o anche per compilare un catalogo virtuale dell’elasticità espressiva delle emozioni umane. Non da ultimo, per sperimentare i mutamenti delle tonalità di luce. Ed è proprio una quadreria di «tronies», spesso di qualità eccelsa nell’esecuzione (in fondo, La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer appartiene a questo genere) a sfilare lungo le sale del museo di Anversa, manifestandosi nei giorni dark e pieni di tensione di un Belgio disorientato, che rivive la paura degli attentati.

Vermeer, Girl with a Red Hat

Turning Heads presenta un corpus eterogeneo (per date e nomi) di 76 opere, capolavori belgi e internazionali, che vanno dalle teste con espressioni grottesche di Metsys ai visi dei contadini di Bruegel fino ai meticolosi studi di Rubens (Balthasar), senza dimenticare gli «antenati» di quella fascinazione che tipizzava l’umanità: il Cristo portacroce di Bosch e Gesù fra i dottori di Dürer (un prestito difficile, dato che non esce quasi mai dal museo Thyssen-Bornemisza di Madrid).
A cura di Nico Van Hout (responsabile delle collezioni del Kmska) e Koen Bulckens, la mostra è nata da una collaborazione tra il Museo Reale di Belle Arti di Anversa e la National Gallery of Ireland (dopo il Belgio, infatti, si sposterà a Dublino). «Quando parliamo di questo genere della pittura, ci riferiamo a due ’grandi onde’. Una riguarda l’Anversa del XVI secolo e l’altra l’Amsterdam del XVII secolo – afferma Koen Bulckens –. Entrambe queste città condividevano all’epoca una caratteristica: potevano contare su un’enorme concentrazione di capitali e su persone che acquistavano dipinti per le proprie quadrerie private. Quindi, ogni ’tronie’ è un’immagine da pinacoteca domestica, pensata per essere mostrata nelle case. L’economia fiorente della società del tempo incoraggiava poi gli artisti a ideare originali formule e a innovare».

C’è un motivo per cui le «teste» prosperarono soprattutto nel nord Europa (pur se probabilmente trassero ispirazione da alcuni studi leonardeschi?)
Il sistema del mercato in città come l’imprenditrice Amsterdam deve aver influito, differenziando il gusto artistico dai centri italiani. A Roma era in vigore più una tendenza al mecenatismo, che dava vita a grandi progetti e, dunque, a grandi opere religiose o gallerie. Ci si basava su commissioni importanti, non su una struttura di libero mercato in cui gli artisti producevano i loro quadri che potevano essere venduti semplicemente circolando.

The bitter Potion di Adriaen Brouwer

L’artista che dipinge quelle serie di volti propone anche una riflessione sulla condizione umana? O sociale?
È stato sostenuto da diversi studiosi che alcune facce potessero riverberare dei valori – per esempio, il viso di un vecchio la saggezza. Ma c’è anche un’altra categoria. Una galleria della mostra di Anversa è dedicata a una serie di volti che trasmettono una certa emozione. Si è spesso sostenuto che gli italiani affidassero i moti dell’anima a tutto il corpo, con gesti scenografici. Nella teoria dell’arte nordica, l’accento è invece posto sul fatto che le emozioni passano «in faccia». Queste sono spiegazioni storiche, ma ciò che mi piace pensare – e che sottolineiamo anche nel catalogo dell’esposizione – è che come esseri umani siamo biologicamente predisposti a interagire con i volti perché siamo creature sociali: l’espressione di una persona e la sua conoscenza attraverso quel canale è fondamentale per farci sopravvivere in un gruppo. La ricerca nel campo delle neuroscienze ha dimostrato che una parte significativa del nostro cervello è dedicata proprio alla lettura dei volti. Si tratta di antichi istinti che fanno parte di una lunga evoluzione della nostra specie. Se guardiamo un’immagine bidimensionale di un viso, stiamo sperimentando qualcosa, anche in materia di somiglianza con noi stessi. Può farci ridere, renderci tristi o commuoverci. È una reazione immediata. La percezione di oggi non è molto diversa da quella del XVI o XVII secolo.

«Tronie» e ritratto: qual è la differenza principale rispetto a ciò che possiamo ammirare del Rinascimento italiano?
Risiede senz’altro nell’intento. Un ritratto è sempre stato dipinto per uno scopo preciso. A volte, anche per preservare l’identità di una città per i posteri e a questo concorre tutto ciò che è presente nel quadro: pose, costume e attributi avevano il compito di trasmettere questa identità. Mentre in una «tronie», l’identità del soggetto non è mai importante. E questa differenza si riflette in alcune caratteristiche formali. Di norma i ritratti avranno una pennellata più rifinita. Le pose, pur comunicando un senso di spontaneità, saranno più formali. Cosa che non accade nel genere «tronie», dove vige una sperimentazione assoluta.

I pittori presenti nella mostra «Turning Heads» hanno approcci diversi al genere…
Sì. Le «tronies» nella tradizione di Rembrandt sembrano trasmettere determinati sentimenti e lui stesso destinò quei volti al mercato affinché fossero venduti come opere d’arte autonome, mentre per Rubens questo non si può dire. Più che «tronies», i suoi sono studi. Il suo scopo era di riprodurli in dipinti storici di grandi dimensioni e quindi erano strumenti preparatori, da conservare in bottega.

Peter Paul Rubens, Head of a Bearded Man

A quale tipo di collezionismo si rivolgevano queste opere?
Si sa molto poco al riguardo, nonostante fossero dipinte da artisti di rilievo e oggi sono opere d’arte chiave che figurano nelle collezioni dei musei. Appartenevano però alla fascia di prezzi più economica del mercato. Erano di piccole dimensioni e non mostravano composizioni molto complesse. Proprio per questo motivo (la dimensione non rilevante) hanno lasciato ben poche tracce negli antichi archivi, a differenza di una grande pala d’altare di cui spesso si trova un contratto o una ricevuta che ne attesta il pagamento. Sappiamo solo che figuravano nelle collezioni di alcuni mercanti.
È corretto immaginare che quei volti siano una sorta di catalogo psicologico delle varie sensibilità umane?
Innanzitutto, va chiarito che è un sottotipo del genere «tronie» a occuparsi in modo esplicito dei sentimenti. Alcuni artisti si sforzano di classificare quelli che oggi descriveremmo come stati d’animo fondamentali – gioia, rabbia, paura, felicità – e senz’altro hanno cercato di rappresentarli nella loro varietà. Oltre a ciò, e ne abbiamo un meraviglioso esempio in mostra a Anversa ci sono le opere di Adriaen Brouwer e Joos Van Craesbeeck, in cui il proposito non era tanto quello di rappresentare un’emozione, quanto proporre una sorta di esercizio di ginnastica facciale. E vedere fino a che punto si possa aprire la bocca o gli occhi al fine di creare un’espressione divertente ma comunque credibile E quindi la possibilità di inventare smorfie.