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Tripoli, il serbatoio dell’Isis

Tripoli, il serbatoio dell’Isis

Libano Non è mai cessato in questi anni il flusso di giovani della città portuale, una roccoforte del salafismo, verso Siria e Iraq dove si uniscono ai ranghi dello Stato islamico

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 5 febbraio 2022

«L’Isis è più di tutto un’idea per chi vi aderisce, è l’idea di uno Stato che ha per capo Dio. Lo Stato islamico esiste non perché ha un territorio definito, piuttosto dipende dalle persone, dai suoi membri, che devono conformarsi a certi riti e a determinate regole di comportamento. Per questo attecchisce in tanti paesi». Davide Grasso conosce bene Daesh, l’Isis, l’ha visto in faccia nel nord della Siria. Oggi è un ricercatore e uno scrittore ma fino a qualche anno fa faceva parte delle unità combattenti curde impegnate contro l’Isis.

«Lo Stato islamico – aggiunge Grasso – è tornato ad essere presente in particolare in Iraq, con azioni militari e imponendo regole di vita e forme di tassazione coatta a famiglie ed individui». E se l’Isis è soprattutto un’idea, allora la morte del suo capo Abu Ibrahim al Hashimi Al Qurayshi nel raid dei commando Usa due giorni fa ad Atmeh (Siria), non impatterà più di tanto sugli aderenti vecchi e nuovi. L’assalto dello scorso 20 gennaio alla prigione di Hasakah nel nord della Siria – decine i morti – è stato ben pianificato a dimostrazione che lo Stato islamico ha ricostruito la sua direzione operativa. E migliaia di uomini di vari paesi infoltiscono di nuovo i ranghi delle sue forze combattenti. Molti di questi sono giovani e arrivano dal Libano.

Ha fatto sensazione nel paese dei cedri la notizia che sei giovani di Tripoli erano tra i nove miliziani dell’Isis uccisi dai bombardamenti dell’aviazione irachena del 30 gennaio in risposta agli attacchi jihadisti (11 soldati morti) alle caserme dell’esercito nel distretto montuoso di al-Azim. Da Tripoli hanno diffuso le immagini del lutto delle famiglie dei giovani morti. Ed è così tornata alla ribalta la partenza di tanti ragazzi della città, storica roccaforte del salafismo, che, come foreign fighters, sono andati, dopo il 2011, a combattere in Siria prima con Al Nusra (al Qaeda) e poi con l’Isis.

Tripoli sulla costa mediterranea è la seconda città più grande del Libano ma è anche una delle più povere. Per questo è terreno fertile per il reclutamento nelle organizzazioni salafite. Notizie giunte negli ultimi mesi e settimane dalla città portuale ammoniscono che l’ulteriore peggioramento delle condizioni di vita in Libano, in piena crisi economica e politica, hanno contribuito a riaprire la via jihadista che da Tripoli passa per la regione di Akkar, attraversa il confine e arriva fino in Siria ed Iraq. Un mix di fanatismo politico e religioso e la possibilità di ricevere un salario da combattente, spingono tanti giovani nelle braccia dei comandanti della milizia dell’Isis.

Dopo i sanguinosi attentati degli anni passati a sud di Beirut, le forze di sicurezza libanesi, con l’aiuto non ufficiale del movimento sciita Hezbollah, sono riuscite a bloccare in gran parte il flusso di miliziani da e verso la Siria e l’Iraq tramite operazioni alle frontiere, negli aeroporti e nei porti. Sono stati cacciati indietro verso Idlib – la regione siriana protetta dalla Turchia controllata da migliaia di jihadisti di varie organizzazioni – circa 5mila combattenti stranieri affiliati ad al-Qaida e oltre 600 all’Isis. Eppure, le sparizioni improvvise di giovani di Tripoli riapparsi poi in Siria e Iraq con le armi in pugno non sono mai cessate.

Povertà, crisi economica, disoccupazione e la sua storia di baluardo salafita e wahhabita fanno di Tripoli uno dei serbatoi naturali dell’Isis. A segnare il destino della città è stata in particolare la predicazione dell’importante sheikh Salim al Shahhal, morto nel 2008, che aveva abbracciato il wahhabismo saudita a Medina alla fine della Seconda guerra mondiale. Dopo essere tornato nella sua città d’origine, fondò il gruppo Shabab Muhammad, la prima fazione salafita in Libano, e farà proseliti nei circa trecento villaggi del distretto di Akkar oltre che nelle strade di Tripoli. Nei decenni successivi prima il declino del nazionalismo arabo successivo alla disfatta della Guerra dei sei giorni e più di recente l’uso strumentale – anche da parte della famiglia Hariri – dell’estremismo sunnita contro gli alawiti di Jabal Mohsen e l’Hezbollah sciita, hanno spinto migliaia di giovani tra le braccia di fanatici senza scrupoli a Tripoli e dei vertici dell’Isis in Siria e Iraq.

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